Ars dicendi

oratoria

“Nel IX libro dell’Iliade i capi dell’esercito acheo decidono di inviare un’ambasceria ad Achille per convincerlo a partecipare ai combattimenti. Della delegazione che deve persuadere l’eroe omerico a sollevare le sorti della guerra contro i Troiani fanno parte Ulisse, Aiace e Fenice. Quest’ultimo ricorda i tempi in cui gli fu affidato Achille dal padre Peleo e lo rievoca dicendo:

Fanciullo, che non sapevi ancora la guerra crudele,
non i consigli, dove gli uomini nobilmente si affermano.
E mi mandò per questo, perché te li apprendessi,
e buon parlatore tu fossi e operatore di opere.

Il. IX 440-443; trad. di R. Calzecchi Onesti

Questi versi sono commentati da Cicerone:

Presso gli antichi, a quanto sembra, il medesimo ammaestramento insegnava sia ad agire onestamente sia a parlare correttamente, e gli insegnamenti non erano distinti: gli stessi uomini erano maestri di vita e di oratoria. Per esempio, in Omero troviamo Fenice che narra di essere stato assegnato come compagno d’armi al giovane Achille dal padre di questi Peleo, perché ne facesse «un oratore e un uomo d’azione nello stesso tempo».
Orat. III 57, 5 ss.; trad. di E.Narducci

da Hortus apertus, Cappelli. CLICCA QUI per un excursus sull’oratoria in Grecia e a Roma.

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I più grandi discorsi della storia contemporanea: Aldo Cazzullo, editorialista del “Corriere della Sera”, presenta i “Grandi Discorsi della Storia”, un programma di Rai Storia. CLICCA QUI per vedere le puntate.

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Un sito americano dedicato alla retorica e all’ars dicendiCLICCA QUI.

Silva rhetoricae:  sito dedicato alla retorica classica a cura di Gideon Burton (Brigham Young University). CLICCA QUI.

Beppe Severgnini, L’importanza di essere retorici, “La Lettura”, 28 luglio 2019

 Esiste nel nostro Paese l’immotivata convinzione che parlare in pubblico sia una sorta di riflesso spontaneo, come piangere, ridere o starnutire. Quando sarà necessario— ragionano in molti — lo farò. In realtà entrano in gioco meccanismi psicologici, sentimenti complessi ed elementi del nostro carattere

«Retorica» suona male. Chi ama parlare difficile, dirà: il vocabolo ha assunto connotazioni negative. Il motivo è evidente: troppi ne hanno abusato. Politici e dittatori, seduttori e venditori, ipocriti e bugiardi. Ma la retorica è la vittima innocente: dobbiamo difenderla, non accanirci contro di lei. La retorica è l’arte di parlare efficacemente, e di persuadere con le parole. Persuadere non significa ingannare. Vuol dire convincere.

La retorica classica risale al V secolo avanti Cristo. A Siracusa, dopo la cacciata del tiranno Trasibulo, il rhétor (retore, appunto) aiutava i cittadini a perorare le loro cause. Ma la necessità di esporre il proprio punto di vista, e convincere il prossimo, è ben più antica. Quando un gruppo di uomini primitivi si rifugiava nella caverna più spaziosa per capire come difendersi dai nemici, state certi: qualcuno si sarà alzato e avrà espresso il suo parere, aiutandosi con gesti e mugugni. I presenti avranno approvato o disapprovato, più o meno rumorosamente. Era una riunione, non troppo diversa, forse più importante, di quelle convocate nella vostra azienda. In quella grotta ci sarà stato il tipo loquace, il noioso, il silenzioso, l’esibizionista, il timido. Alla fine, qualcuno avrà convinto gli altri. Probabilmente, quello che si esprimeva nel modo più efficace.

Nelle scuole americane la retorica viene insegnata. La chiamano presentation literacy. A turno, un bambino deve parlare a nome di tutti gli altri: più che un capoclasse, un portavoce. A Eton, la scuola che ha sfornato 20 primi ministri britannici (compreso Boris Johnson), retorica, poesia, teatro e public speaking sono materie d’insegnamento, giudicate fondamentali per il successo nella vita. La capacità di dibattere, allenata alla Oxford Union, ha segnato molte carriere. La vicenda di Brexit si gioca tra personaggi cresciuti in quel mondo, in quel modo e nello stesso periodo, i primi anni Ottanta (il succitato Boris Johnson, Jeremy Hunt, Michael Gove, Jacob ReesMogg, David Cameron). Talvolta l’abilità oratoria — in Inghilterra, e non solo — serve a nascondere l’ignoranza o l’incompetenza. «Una cosa che s’imparava a Oxford, anche se non stavi nella Union, era come parlare di un tema pur sapendone poco», ha scritto sul «Financial Times Magazine» Simon Kuper, che ha frequentato la stessa università, qualche anno dopo. La capacità oratoria può confondere e ingannare, quindi? Certamente. Ma può anche chiarire, spiegare, motivare, entusiasmare, convincere. È una competenza fondamentale, in molti campi. Non solo in politica e nell’insegnamento, nelle aziende e nei servizi, nelle associazioni e nello sport. Anche nel giornalismo, ormai. Saper scrivere non basta; bisogna saper comunicare. Quindi: saper dire, spiegare, illustrare, raccontare, sintetizzare, persuadere. Parlare in pubblico non è un vezzo e non è un gioco. È una tecnica, e può diventare — o arricchire — un mestiere. Improvvisare? A nostro rischio e pericolo.

Un professore, un professionista, un amministratore o un allenatore — state certi — prima o poi si troveranno davanti un microfono e una distesa di occhi attenti; e dovranno esporre i propri pensieri. L’uditorio sarà più o meno vasto (l’aula, l’assemblea, la piazza, i dipendenti, gli azionisti, il gruppo, la conferenza-stampa, lo spogliatoio). Gli stili saranno diversi, e soggetti al gusto di chi ascolta. Non esiste un unico modo di parlare in pubblico. L’efficacia si misura dal risultato. José Mourinho non è Carlo Ancelotti: ma entrambi sanno rivolgersi a una sala piena (il primo, si ha l’impressione, si diverte più del secondo).

Presentare il proprio punto di vista e persuadere con le parole — o almeno provarci — è importante. È sorprendente che questa competenza — skill, in milanese moderno — in Italia non venga insegnata. Non a scuola, quasi mai agli adulti. Esiste l’immotivata convinzione che parlare in pubblico sia una sorta di riflesso spontaneo, come piangere, ridere o starnutire. Quando sarà necessario — ragionano in molti — lo farò; se non troverò il microfono, dovrò solo alzare un po’ la voce.

Non è così. Mi è capitato spesso, in occasione di incontri o presentazioni, di trovarmi di fianco a persone preoccupate. Assessori, presidenti di associazioni, dirigenti d’azienda, professionisti: spaventati all’idea di dover parlare in pubblico per cinque minuti. Quando finalmente trovavano il coraggio e aprivano bocca, spesso commettevano errori: fissavano il vuoto o guardavano ossessivamente un’unica persona davanti a sé; iniziavano a voce troppo bassa o troppo alta; respiravano affannosamente; cercavano d’essere brillanti senza riuscirci; non sapevano come chiudere e si perdevano in penose digressioni. Parlare in pubblico non è semplice e non è quasi mai spontaneo. Mette in gioco meccanismi psicologici, sentimenti complessi ed elementi del nostro carattere (timidezza, vanità, esibizionismo, ansia). Esiste un’attitudine, come in ogni cosa. I talenti naturali sono pochi, tutti gli altri possono imparare.

La mia scuola? Non la televisione ma la presentazione dei libri. Spiagge, piazze, aeroporti, giardini pubblici,rifugi alpini, porti turistici, palestre, centri polisportivi, stazioni, hangar, caffè, librerie, ville storiche, aule magne, sale consiliari, oratori, cinema, supermercati, parcheggi, zone pedonali, municipi, siti archeologici, corridoi, tensostrutture, pinete, complessi monumentali, cortili, cantine, retrobottega, palazzi ducali, scuole, yacht club, alberghi, biblioteche, ristoranti, chiese, collegi, cappelle, cantine e traghetti. Ogni volta ho pensato d’essere fortunato a incontrare tanta gente, venuta lì perché non aveva di meglio da fare, o addirittura per me. Ho visto tante piazze piene, ma anche molte sedie vuote, soprattutto all’inizio: e ho imparato molto. Se uno riesce a non annoiare dieci persone, sarà più bravo quando ne avrà davanti mille. Il mio fallimento preferito? Sul lungolago di Gardone, nel 1990: i presenti (cinque) erano parenti dell’organizzatore, convocati d’urgenza. Successi di cui vado orgoglioso? Pochi giorni fa, nelle piazze di Barolo, Cuneo (Collisioni), e Jesolo, Venezia. Nel primo caso — pomeriggio torrido — ho regalato una bottiglietta d’acqua a chi faceva partire l’applauso (dodici bottigliette, dodici applausi, bella atmosfera). Nel secondo caso — serata di pioggia — ho lasciato il gazebo coperto e ho chiesto ai lettori/ spettatori di non andare via: ci saremmo bagnati insieme. Così è stato.

È bene dirlo subito: non esiste un unico modo di parlare in pubblico. Ed è importante ricordare che lo stile senza sostanza è irritante, almeno quanto la sostanza senza stile. Ma alcune cose si possono apprendere.

 La cosa più importante, che molti dimenticano: occorre avere qualcosa da dire. Meglio se è una cosa sola, che ci appassiona eacui teniamo (l’assenza di convinzione dell’oratore si percepisce immediatamente).

Occorre mettersi nei panni degli ascoltatori, e instaurare subito un contatto con loro — può bastare uno sguardo, una battuta, un’ammissione («Signori, sono nervoso. Ma ho una cosa importante da dirvi. Mi aiutate?»). Occorre essere generosi. Give not take, dare non prendere, suggerisce Chris Anderson, nel suo Ted Talks. The Official Ted Guide to Public Speaking. Anderson divide la sua lunga lezione in cinque parti, che corrispondono allo schema suggerito ai chi sale sul palco:

Connessione

Narrazione

Spiegazione

Persuasione

Rivelazione

Uno dei Ted speaker più popolari — sir Ken Robinson, il suo intervento è stato visto 60 milioni di volte — organizza il proprio discorso (19 minuti) in questo modo:

Introduzione

Contesto

Concetti principali

Implicazioni pratiche

Conclusioni

Molto prima di loro, Cicerone scriveva: «Rem tene; verba sequentur», conosci l’argomento, le parole seguiranno. Ma, nella tradizione di Aristotele, suggeriva come organizzare il discorso in modo efficace (ars oratoria). Nel De inventione — scritto intorno all’anno 85 a. C., quando aveva poco più di vent’anni — indica cinque passaggi:

Inventio: trovare gli argomenti

Dispositio: metterli in ordine

Elocutio: scegliere le parole, le espressioni e lo stile

Memoria: mandare a mente

Actio: esporre in modo interessante

Come vedete, non è cambiato molto. Resta, dicevamo, la necessità della preparazione e dell’esercizio. Prima ancora, però, bisogna convincersi che ci sia qualcosa da imparare. Non una volta per tutte: serve un aggiornamento continuo. Ecco perché a un certo punto della mia vita — a 57 anni, per l’esattezza — ho deciso di provare il teatro. Mi attirava, e intuivo che mi sarebbe stato utile nel lavoro di giornalista-scrittore, e in televisione. L’opera — lo spettacolo? l’esperimento? — si chiamava La vita è un viaggio. L’ho portata in giro per l’Italia (cinquanta date tra il 2014 e il 2016), e ho capito d’aver imparato molte cose: ad ascoltare il pubblico (i mormorii, i silenzi, le risate); a misurare i gesti; a riempire lo spazio; a non sprecare le parole; a usare le pause. Soprattutto, ad accettare che ogni volta è diverso, e si ricomincia da capo. Un po’ di teatro, sono convinto, farebbe bene a molti, in Italia: fin dalla scuola. E se non è teatro, almeno un podio, un microfono, un pubblico (i compagni di classe vanno benissimo: sono l’uditorio più impegnativo). È un esercizio utilissimo. Perché su un palcoscenico — quello di una riunione aziendale, di un’associazione o di un pranzo di matrimonio — ci saliamo tutti, prima o poi. Tanto vale imparare a farlo, e a farlo bene.

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