Aeneis, Liber quartus

Low Ham mosaic—detail of hunt depicting Dido, Aeneas, Ascanius; 4th century CE, Taunton; Somerset County Museum. Credits: Barbara McManus, 1986

Macrobio, Saturnalia V, 17, 4

<Vergilius> non de unius racemis vindemiam sibi fecit, sed bene in rem suam vertit quidquid ubicumque invenit imitandum; adeo ut de Argonauticorum quarto, quorum scriptor est Apollonius, librum Aeneidos suae quartum totum paene formaverit, ad Didonem vel Aenean amatoriam incontinentiam Medeae circa Iasonem transferendo. quod ita elegantius auctore digessit, ut fabula lascivientis Didonis, quam falsam novit universitas, per tot tamen saecula speciem veritatis obtineat et ita pro vero per ora omnium volitet, ut pictores fictoresque et qui figmentis liciorum contextas imitantur effigies, hac materia vel maxime in effigiandis simulacris tamquam unico argumento decoris utantur, nec minus histrionum perpetuis et gestibus et cantibus celebretur.
“Non a caso ho parlato di un altro poeta [oltre Omero], giacché egli non fece vendemmia alla vigna di uno solo, ma seppe utilizzare tutto ciò che trovò da imitare in ogni autore. E così dal libro IV delle Argonautiche, opera di Apollonio Rodio, desunse quasi completamente il libro IV della sua Eneide, trasferendo alla coppia di Didone e Enea l’incontenibile passione amorosa di Medea per Giasone. E in ciò riuscì superiore al suo modello, tanto che la fabula di Didone dalla forte sensualità, che, come tutti sanno, è falsa, mantiene ancora dopo tanti secoli l’apparenza di verità; essa passa per vera sulla bocca di tutti: perfino pittori, scultori, tessitori di arazzi sfruttano questo argomento più di ogni altro nelle loro raffigurazioni fantastiche come se fosse l’unico motivo di decorazione, e non sono da meno gli attori che lo divulgano continuamente in infinite rappresentazioni mimiche e cantate”.

Low Ham mosaic—detail depicting Aeneas’ ships departing; 4th century CE, Taunton; Somerset County Museum. Credits: Barbara McManus, 1986

Lucia Poli legge il quarto libro dell’Eneide.

Aeneis,  IV, 1-30 (L’innamoramento di Didone). Traduzione di Alessandro Fo.

At regina gravi iamdudum saucia cura
volnus alit venis et caeco carpitur igni.
Multa viri virtus animo multusque recursat
gentis honos; haerent infixi pectore voltus
verbaque nec placidam membris dat cura quietem.        
Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
«Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
Quis novos hic nostris successit sedibus hospes,      
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
Degeneres animos timor arguit. Heu quibus ille
iactatus fatis! quae bella exhausta canebat!
Si mihi non animo fixum immotumque sederet     
ne cui me vinclo vellem sociare iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna (fatebor enim) miseri post fata Sychaei    
coniugis et sparsos fraterna caede penatis,
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. Adgnosco veteris vestigia flammae.
Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens abigat me fulmine ad umbras,    
pallentis umbras Erebo noctemque profundam,
ante, Pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
Ille meos, primum qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro».
Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.

Ma la regina, da tempo ferita da grave tormento,
dentro le vene alimenta la piaga e arde d’un cieco fuoco.
Torna la molta virtù dell’eroe nell’animo, il molto
pregio di stirpe, confitti nel petto stan volto e parole,
né il tormento concede alle membra il riposo che placa.
Con il seguente fulgore di Febo irradiava le terre
e scostava, l’Aurora, l’umida ombra dal cielo[1],
quando così, male in sé, alla concorde sorella si volge:
«Anna, sorella, che sogni mi tengono in ansia e terrore![2].
Questo ospite giunto da noi com’è straordinario,
come si porge nel volto, che forza nel petto e negli omeri!
Credo davvero, e non sbaglio, che sia di una stirpe divina.
Animi ignobili accusa il timore. E lui, ah, da quali
fati è stato vessato! Che guerre affrontate cantava!
Se non avessi nell’animo salda e incrollabile scelta
di non congiungermi più con patto di nozze ad alcuno,
dopo che il mio primo amore, morendo, mi illuse e deluse;
se non avessi ormai in odio le stanze e le torce nuziali
forse a quest’unica colpa avrei potuto soccombere[3].
Lo confesso, Anna, infatti, dal fato del misero sposo
mio Sichèo, e dalla strage fraterna che asperse i Penàti[4],
lui solo i sensi ha piegato, e ha colpito, sì che ora vacilla,
l’animo. Riconosco l’antica fiamma e i suoi segni.
Ma preferisco mi si apra profonda, piuttosto, la terra
o il padre onnipotente mi scagli col fulmine alle ombre,
pallide ombre nell’Èrebo [5], e ad una notte d’abisso,
prima che te, Pudore, io vìoli, o i tuoi vincoli sciolga.
Quello, colui che per primo a sé mi congiunse, i miei amori
si è rapito: lui li abbia con sé, e nel sepolcro li serbi!»
Detto che ebbe, affiorate le lacrime, ne riempì il seno.

6-7. Cfr. la nota a II 8-9.

[2] 8-9. Senza averla in precedenza presentata, Virgilio introduce qui la figura di Anna, sorella unanima di Didone (sull’aggettivo si veda ora Roberta Strati, Itinerari di parole: unanimus, in Paolo Mantovanelli – Francesca Berno, a cura di, Le parole della passione, Studi sul lessico poetico latino, Pàtron, Bologna 2011, pp. 209-42: 209-11). Il personaggio apparteneva già alla tradizione previrgiliana; sappiamo anzi dal commento di Servio che una variante del mito, sostenuta da Varrone Reatino, faceva di lei, e non di Didone, la protagonista degli amori con Enea (cfr. nota a IV 680-81). Virgilio le assegna il ruolo della confidente, una delle risorse tecniche sfruttate dai poeti drammatici per mettere il pubblico al corrente dei sentimenti di un protagonista; che questa funzione spetti qui alla sorella e non, per esempio, a una nutrice (cfr. nota a IV 632), favorisce una maggiore nobiltà di tono, in linea con la elevatezza e la regalità che connotano la Didone virgiliana. Una certa influenza su Virgilio ha esercitato anche il rapporto fra Medea e la sorella Calcíope nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Per tutta la problematica si vedano Richard Heinze, La tecnica epica di Virgilio, edizione italiana a cura di Vittorio Citti, traduzione di Mario Martina, introduzione di Gian Biagio Conte, Il Mulino, Bologna 1996 (edizione originale 1903, 19153), pp. 149 sgg. (particolarmente 157-61) e Giovanni D’Anna, s.v.Anna, in Enciclopedia Virgiliana I, 1984, pp. 178-82.

[3] 18-19. Virgilio ha qui in mente le fiaccole che a Roma, in occasione del rito matrimoniale, accompagnavano il corteo degli sposi. Nella sua agitazione, Didone avverte già fin da ora la sua possibile unione con Enea come una culpa nei riguardi della fedeltà verso il defunto marito Sichèo, e di conseguenza nei riguardi del pudor. Si veda anche Heinze (cit. alla nota precedente), pp. 157 sgg. Cfr. IV 91 e 172.

[4] 20-21. I due versi rievocano con orrore il delitto di cui era stato vittima Sichèo, marito di Didone, ucciso dal fratello di lei, Pigmalióne. Per i Penati si veda nota a I 5-7. L’aggettivo fraterna potrebbe rinviare al rapporto quasi di fraternità che veniva a intervenire in Roma fra cognati, piuttosto che al legame di fraternità intercorrente fra Didone e Pigmalióne (P. Vergili Maronis Aeneidos Liber Quartus, edited with a Commentary by Roland G. Austin, Clarendon Press, Oxford 1955, reprinted with corrections 1963, ad locum). Cfr. I 343 sgg.

[5] IV 26. Èrebo è uno dei termini per indicare l’oltretomba, personificazione delle loro tenebre; si elaborò anche una genealogia che lo voleva figlio di Caos, fratello e sposo della Notte (cfr. nota a IV 510-11); sulla scorta della nota di Servio ad VI 604, si è ritenuto che possa essere distinta con il nome di «Èrebo» la parte più profonda degli inferi, in cui dimorano coloro che vissero bene, ma non possono accedere agli Elìsi perché ancora non hanno affrontato il processo di purificazione: si veda Mariangela Scarsi, s.v. Erebo, in Enciclopedia Virgiliana II, p. 363, che difende in questo passo la lezione alternativa Erebi, recepita da vari studiosi. Poco oltre (v. 34) Anna chiama in causa i Mani: su di essi cfr. nota a III 62-68.

Giorgio Montefoschi, La passione impossibile di Enea e Didone: un intreccio di amore e morte, «Corriere della Sera», 10 agosto 2000

La notte, l’ombra, e il senso invincibile della colpa dominano i primi quattro libri dell’Eneide: quelli nei quali è raccontato l’amore impossibile fra Didone e Enea. L’oscurità rende la luce più vivida, è vero: ma è una luce ingannatrice; una luce che fugge; una luce che brilla e già è pronta a spegnersi; una luce portatrice di morte. Amore e morte sono legati in maniera indissolubile nei primi quattro libri dell’Eneide. L’amore cova la perdita, la sua sconfitta: così come il buio accende la fiamma. Mai era apparsa, nella storia della letteratura, una fiamma che, avendo unito il cuore d’una donna e d’un uomo, fosse così corteggiata dal suo contrario. Solo in alcuni romanzi dell’Ottocento inglese o francese o russo riapparirà con tanta disperata certezza: in alcune pagine dei Demoni, in Cime tempestose certamente, nel Rosso e il nero. Sembra che, oggi, una profondità carsica abbia inghiottito la verità dell’amore profondo, lasciando uno spazio più rassicurante, il campo libero alle cautele preventive, guidate dalla ragione, dalle psicologie; sembra che un abisso abbia inghiottito l’amore di Didone ed Enea.

Subito, all’inizio del poema, il lettore è stupito da una immagine che non si aspetta. Giunone, la dea che ha in odio i troiani, ha scatenato una tempesta: le navi di Enea e dei suoi compagni approdano finalmente alle rive della Libia; al porto di Cartagine. Questo porto non ha nulla di solare, di mediterraneo, di africano: ha un’isola davanti che lo protegge; sopra, uno sfondo di selve; in basso, un oscuro bosco incombe con «orrida ombra». Di fronte, c’è una grotta, dalla quale sgorgano acque dolci, dimora di ninfe. Anche la grotta è ombrosa. Non è la Libia: è l’Averno. È un paesaggio «virgiliano», sepolcrale, quello cui approda Enea. Enea va in esplorazione della terra. Sotto mentite spoglie, gli si fa incontro sua madre, Venere. Gli racconta che si trova nei pressi di una città fondata da una donna fenicia, Didone, fuggita dalla sua patria dopo che il fratello, Pigmalione, le ha ucciso il marito, Sicheo. Venere rassicura il figlio sul futuro, lo avvolge in una nebbia che lo renderà invisibile, e scompare. Avvolto nel manto di nebbia, Enea raggiunge la città. C’è, al centro della città, un bosco rigoglioso d’ombra. In questo bosco, la regina ha dedicato un tempio a Giunone: sulle sue mura son dipinti gli episodi salienti della guerra di Troia. Mentre Enea li contempla, e il suo cuore è scosso, Didone, bellissima, circondata da uno stuolo di giovani, entra nel tempio e si siede sul trono. Nel frattempo, arrivano gli altri naufraghi. Raccontano la loro storia; chiedono di essere accolti. Didone promette la sua amicizia. In quel preciso istante, la nebbia si dissolve e appare Enea. Virgilio dice che l’eroe troiano rifulgeva di «chiara luce»; che il volto e le spalle erano simili a quelle di un dio; che una grazia lieta gli brillava negli occhi. Le parole con le quali si rivolge a Didone sono insinuanti. Lei stupisce. Sei tu Enea, generato da Venere? gli domanda, e lo fa entrare nel palazzo. Enea la segue; prima, però dà disposizione ai compagni di recarsi alle navi, per portare i doni, e suo figlio: Ascanio. In tal modo, il tema della famiglia – questo simulacro del passato destinato a perseguitare la passione amorosa, ad avvelenarla con il senso della colpa, fa il suo ingresso nel racconto. Ma Venere prepara un inganno. Va da un altro suo figlio, Cupido, e gli impone di assumere le sembianze d’Ascanio. «Quando Didone ti accoglierà in grembo», gli dice, «tu spargerai il tuo veleno e i tuoi inganni»: la regina s’accenderà in delirio e un fuoco le avvolgerà le ossa. Così avviene. Nella sala del convito, Didone è stesa sotto superbi tendaggi. Enea e i suoi compagni giacciono su tappeti purpurei ai suoi piedi. Girano le ancelle con i bacili d’oro. Arriva Ascanio. Ignara di quale dio le si posi in grembo, Didone stringe al seno – sventurata – il fanciullo: comincia a stringere il padre, attraverso il figlio. Intanto, Cupido – è lui – comincia a spargere il suo veleno. L’immagine, il ricordo di Sicheo, lentamente si cancellano dal cuore incerto e disavvezzo al sentimento amoroso. Passano i crateri colmi di vino. Si beve. Didone è bramosa di ascoltare: vuole sapere di Priamo, di Ettore, di Achille. Il racconto di Enea ha il suo culmine nella notte dell’inganno del cavallo: l’incendio di Troia. È la fine. La città assediata per dieci lunghi anni è devastata. I greci uccidono. Negli alti palazzi salgono le fiamme. Nelle aule vuote, nei templi profanati scorre il sangue, si odono lugubri lamenti. È un buio terribile, questo buio rischiarato dalle lingue del fuoco. Enea vorrebbe combattere, morire come Priamo; ma, all’improvviso, una debole fiamma, segno divino, lambisce il capo del figlio: Ascanio. Anchise, il vecchio padre, riconosce il segno: indica la fuga, la salvezza. Enea e i suoi fuggono: si danno appuntamento, presso un colle oscuro, poco fuori la città. Dietro, viene Creusa: la sposa. Improvvisamente Creusa scompare: non c’è più. Folle di dolore, Enea torna a cercarla. Nei palazzi vuoti, sfida la morte. Incurante del pericolo, la chiama a gran voce, delira. Lei non c’è più. Finalmente, un suo simulacro, la sua ombra, appare a Enea. Le parole di Creusa sono già infinitamente lontane. Non per questo, meno terribili. Non abbandonarti al dolore, o dolce sposo – gli dice – perché tutto ciò accade per volere degli dei. Io non posso venire con te… Tre volte Enea tenta di cingerle il collo; tre volte l’immagine sfugge: come «un alato sogno». La memoria dell’altra non impedisce che il delirio amoroso, simile a un cieco furore, scorra nelle vene di Didone, al termine del racconto. Ella va da Anna, sua sorella, e si confida. «Riconosco i segni dell’antica fiamma», confessa. Tuttavia, vuol mostrarsi irremovibile: la fedeltà a Sicheo, il marito, la accompagnerà nel sepolcro. La risposta di Anna è scaltra, saggia: prolunga almeno l’ospitalità – suggerisce -, indugia, mentre è inverno, il mare è tempestoso. Ora una dolce fiamma divora le midolla. Come una cerva ferita che non riesce a staccarsi la lancia che l’ha colpita, Didone arde e vaga. Conduce Enea attraverso le mura e gli mostra la città. Parla e s’arresta. Tiene in grembo Ascanio per illudersi di stringere il corpo di suo padre. Vuole nuovi conviti, nuovi racconti. Poi, quando la luna si oscura e le stelle cadenti conciliano il sonno, giace sui tappeti abbandonati, senza trovare il riposo. Gli dei, nel frattempo, guardano. Giunone vuole sviare Enea dalle sponde italiche, poiché sa che di lì verrà la rovina di Cartagine; Venere teme per il figliolo. L’accordo è per una tregua, sigillata dal matrimonio. Basterà organizzare una caccia, e scatenare un temporale nel mezzo della caccia. Così avviene. Inizia la caccia; Enea e Didone vanno sui monti. A un tratto, il cielo s’oscura: precipitano torrenti d’acqua. I due trovano riparo in una spelonca e, nell’oscurità, consumano le nozze, mentre i lampi scoccano ovunque, e le ninfe, consapevoli di quanto sta accadendo, ululano sulle più alte vette. «Quello» dice Virgilio «fu il primo giorno di morte, e la prima / causa di sventure…». Didone lo chiama connubio: «vela con questo nome la colpa». La Fama vola; arriva fino alle vette dell’Olimpo. Giove guarda in basso: non erano questi i patti. Chiama Mercurio. Vada da Enea: e l’Italia, Roma? «Navighi!», questo è il messaggio che Enea ascolta ammutolito. Che fare? «Mentre la dolcissima / Didone, ignara, non pensa che un amore così grande s’infranga…», comanda di apprestare segretamente la flotta. Ma Didone ha un presentimento – «chi ingannerebbe un amante?» e, come una Baccante, «infuria smarrita nell’animo e ardente delira / per tutta la città…». Poi, finalmente, si decide e affronta Enea. Il dialogo è il fulcro drammatico del libro. Dapprima, Didone usa le armi della supplica, della pietà («Almeno se stringessi fa le braccia un figlio avuto da te»); poi, ascoltando le parole dure che Enea si impone di dirle (se fosse per me, sarei a Troia: di nuovo l’ombra del vecchio matrimonio), diventa furibonda. Non una madre, una tigre ircana ha dato le mammelle a Enea! Che vada! Lei non lo tratterrà. Sconterà la pena sugli scogli. Subirà il castigo. Lei lo inseguirà, quando la fredda morte avrà separato le membra dell’anima. Sarà il suo fantasma, ovunque… Dopo l’invettiva, tremenda – già amore e morte si stanno saldando – Didone «fugge la luce, e si volge, e si sottrae allo sguardo / lasciandolo molto esitante…». La raccolgono le ancelle e adagiano il corpo svenuto sui cuscini… Il «pio» Enea, con l’animo «vacillante per il grande amore», esegue i comandi degli dei e torna alla flotta. Inizia l’ultimo atto. Dall’alto della rocca, Didone vede i preparativi della partenza. È sconvolta. Piange, prega, si strappa i capelli. «Crudele amore, a cosa non spingi i cuori umani?» commenta il poeta. Neppure i tentativi di procrastinare la partenza, sottomettendo «l’orgoglio all’amore», sperimentati dalla sorella Anna, a cui si è rivolta, danno alcun frutto. Enea è irremovibile. Il suo cuore è scosso come una grande quercia battuta dai venti; però non cede ai pianti: un dio gli chiude gli «imperturbabili orecchi». Allora Didone, atterrita dai fati, implora la morte. Odia guardare la luce si rifugia nel tempio dedicato a Sicheo, lo sposo, ove ode, la notte, strane voci provenienti dal sottosuolo, i lugubri richiami dei gufi. Il matrimonio tradito la perseguita; come Enea stesso già la sta perseguitando nei sogni. Dunque – ingannando sua sorella: le parla di una maga etiope dalla quale ha imparato come si fa a liberare la mente dagli incantesimi – prepara un rogo, sopra il quale depone il talamo, le armi e l’effigie di Enea. Il letto, dice, è il letto «nel quale mi sono perduta». Poi tace, e «il pallore le invade il volto». Viene la notte. Si acquietano i boschi e il mare tempestoso. Tutto è silente: i corpi stanchi godono il placido sonno, e si placano gli affanni. Non si placa il cuore di Didone: «L’amore / imperversa, e fluttua con grande tempesta d’ire». Insieme, lo corrode il rimorso: «Non ho saputo trascorrere la vita senza nozze, / e senza colpa, come una bestia, ed evitare tali affanni. / Non ho serbato la fede promessa alle ceneri di Sicheo». Mentre si tortura sull’alta poppa, deciso ormai alla partenza, Enea coglie «un po’di sonno». Ora il tempo precipita, incalza. Mercurio scende in terra e apostrofa Enea: «Dormi?». Gli impone di alzare le vele. È l’alba. Didone vede la flotta allineata, biancheggiare le vele. La follia le sconvolge la mente. Pensa al traditore: «Non potevo sbranare il corpo e disperderlo nelle onde?». La tradizione, attribuita a Nevio, che vede in Didone essenzialmente una maga, coglie qui la sua maggiore evidenza. Didone maledice Enea: giaccia insepolto tra la sabbia. Poi, stravolta dalla ferocia dei suoi propositi, roteando lo sguardo sanguigno, «cosparsa di macchie / le gote frementi, e pallida della morte futura, / irrompe nelle intime soglie del palazzo, e sale / furiosa gli alti gradini, e snuda la spada…». È il momento del sacrificio. Vedendo il letto, le vesti e l’effigie di Enea, Didone impallidisce. Bacia il letto. Dolci spoglie – supplica – liberatemi da queste pene! Quindi si getta sul ferro. Arriva Anna. Didone agonizza. Tre volte cerca di sollevare le palpebre pesanti, in cerca della luce; tre volte ricade sul giaciglio. Finalmente, nell’alto cielo, la trova. Virgilio dice: «e gemette al trovarla». Intanto, inviata da Giunone, impietosita, Iride scende dal cielo, e pronuncia le parole fatali: «Da questo tuo corpo ti sciolgo». Dice Virgilio: «D’un tratto / tutto il calore svanì e la vita dileguò nei venti». Molti anni più tardi, a questo triste episodio si ispirò Torquato Tasso: quando, nel canto XVI della Gerusalemme liberata, narrò di una maga, Armida, abbandonata da un eroe, Rinaldo, con i suoi pensosi versi.
(Nota: i versi citati tra virgolette appartengono alla splendida traduzione dell’Eneide fatta da Luca Canali, per la Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori)

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I PROTAGONISTI L’eroe troiano e la regina di Cartagine Enea, personaggio dell’epos greco, vive per la più recente esistenza datagli da Virgilio (70-19 a.C.) nell’Eneide. Nell’Iliade è una figura di secondo piano; tuttavia è messa in rilievo non solo la sua origine divina (nato da Afrodite, Venere per i romani, e da Anchise, è anche discendente in linea retta da Giove), ma soprattutto la sua missione regia: Posidone annuncia nel consesso degli dèi che Enea e i suoi figli regneranno sui Troiani. Omero ignora dunque le peregrinazioni di Enea, ma esalta già l’uomo devoto, protetto dagli dèi. Nell’Iliade egli è condottiero, insieme con gli Antenoridi, dei Dardani, e si misura valorosamente in varie prove. La figura di Enea in Virgilio riassume quasi tutti gli elementi e i motivi sviluppati attorno al nucleo omerico, dando maggiore risalto a quelli accreditati dalle vicende politiche di Roma. La leggenda di Didone è di origine semitica; la versione che segue, data da Timeo, con cui sostanzialmente concorda Giustino, contiene elementi greci. Theiosso, in fenicio Elissa, sorella di Pigmalione re di Tiro, uccisole da costui il marito, fugge in Libia, dove è chiamata dagli indigeni Didone (l’etimo vero è controverso: Giustino spiega «errante»), e lì fonda Cartagine. Chiesta in sposa con le minacce dal re di Libia, piuttosto che tradire la memoria del marito si uccide gettandosi su di un rogo. Diversa la leggenda raccontata da Giustino, secondo cui il marito ucciso è Acherbas, il nuovo pretendente è Iarba, re dei Massitani, e Didone invece di gettarsi sul rogo vi sale trafiggendosi con una spada.

Pieter Paul Rubens, Morte di Didone

 

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