La morte di Seneca

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Manuel Domínguez Sánchez, Morte di Seneca, 1871, Museo Nacional del Prado, Madrid

‘Meditare mortem’: qui hoc dicit meditari libertatem iubet. Qui mori didicit servire dedidicit; supra omnem potentiam est, certe extra omnem. Quid ad illum carcer et custodia et claustra? liberum ostium habet. Una est catena quae nos alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus, ita minuendus est, ut si quando res exiget, nihil nos detineat nec impediat quominus parati simus quod quandoque faciendum est statim facere.                                                                                                 Epistulae ad Lucilium, XXVI

Il racconto di Tacito, Annales, XV, 62-64

62. [1] Ille interritus poscit testamenti tabulas; ac denegante centurione conversus ad amicos, quando meritis eorum referre gratiam prohiberetur, quod unum iam et tamen pulcherrimum habeat, imaginem vitae suae relinquere testatur, cuius si memores essent, bonarum artium famam fructum constantis amicitiae laturos. [2] Simul lacrimas eorum modo sermone, modo intentior in modum coercentis ad firmitudinem revocat, rogitans ubi praecepta sapientiae, ubi tot per annos meditata ratio adversum imminentia? cui enim ignaram fuisse saevitiam Neronis? Neque aliud superesse post matrem fratremque interfectos quam ut educatoris praeceptorisque necem adiceret.
63. [1] Ubi haec atque talia velut in commune disseruit, complectitur uxorem et paululum adversus praesentem fortitudinem mollitus rogat oratque temperaret dolori neu aeternum susciperet, sed in contemplatione vitae per virtutem actae desiderium mariti solaciis honestis toleraret. Illa contra sibi quoque destinatam mortem adseverat manumque percussoris exposcit. [2] Tum Seneca gloriae eius non adversus, simul amore, ne sibi unice dilectam ad iniurias relinqueret, «vitae» inquit «delenimenta monstraveram tibi, tu mortis decus mavis: non invidebo exemplo. sit huius tam fortis exitus constantia penes utrosque par, claritudinis plus in tuo fine». Post quae eodem ictu brachia ferro exolvunt. [3] Seneca, quoniam senile corpus et parco victu tenuatum lenta effugia sanguini praebebat, crurum quoque et poplitum venas abrumpit; saevisque cruciatibus defessus, ne dolore suo animum uxoris infringeret atque ipse visendo eius tormenta ad impatientiam delaberetur, suadet in aliud cubiculum abscedere. et novissimo quoque momento suppeditante eloquentia advocatis scriptoribus pleraque tradidit, quae in vulgus edita eius verbis invertere supersedeo.
64. [1] At Nero nullo in Paulinam proprio odio, ac ne glisceret invidia crudelitatis, <iubet> inhiberi mortem. Hortantibus militibus servi libertique obligant brachia, premunt sanguinem, incertum an ignarae. [2] Nam ut est vulgus ad deteriora promptum, non defuere qui crederent, donec implacabilem Neronem timuerit, famam sociatae cum marito mortis petivisse, deinde oblata mitiore spe blandimentis vitae evictam; cui addidit paucos postea annos, laudabili in maritum memoria et ore ac membris in eum pallorem albentibus ut ostentui esset multum vitalis spiritus egestum.  [3] Seneca interim, durante tractu et lentitudine mortis, Statium Annaeum, diu sibi amicitiae fide et arte medicinae probatum, orat provisum pridem venenum quo damnati publico Atheniensium iudicio extinguerentur promeret; adlatumque hausit frustra, frigidus iam artus et cluso corpore adversum vim veneni. postremo stagnum calidae aquae introiit, respergens proximos servorum addita voce libare se liquorem illum Iovi liberatori. Exim balneo inlatus et vapore eius exanimatus sine ullo funeris sollemni crematur. ita codicillis praescripserat, cum etiam tum praedives et praepotens supremis suis consuleret. 

Seneca, imperturbabile, chiede le tavole del testamento; di fronte al rifiuto del centurione, rivolgendosi agli amici, dichiara che, poiché gli si impediva di dimostrare a essi la propria gratitudine come meritavano, lasciava loro l’unico bene che possedeva, che era anche il più bello: l’immagine della propria vita, della quale, se avessero conservato memoria, avrebbero raggiunto la gloria di azioni oneste e di un’amicizia solida. Intanto, ora con le parole, ora, con maggiore energia, in tono autorevole, frena le lacrime, richiamandoli alla fermezza e chiedendo dove fossero gli insegnamenti della filosofia, dove fosse la consapevolezza della ragione, affinata in tanti anni, contro i mali incombenti.
A chi infatti era ignota l’efferatezza di Nerone? Al quale non restava altro, dopo l’uccisione della madre e del fratello, che ordinare anche l’assassinio del suo educatore e maestro. Dopo aver fatto queste riflessioni, rivolte a tutti, abbraccia la moglie e, inteneritosi molto, malgrado la forza d’animo di cui dava prova in quel momento, la prega e la scongiura di contenere il suo dolore e di non renderlo eterno, ma di trovare, nella meditazione di una vita tutta vissuta nella virtù, un valido aiuto per reggere il rimpianto del marito perduto. Paolina afferma invece che la morte è destinata anche a sé e chiede la mano del carnefice. Seneca allora, per non opporsi alla gloria della moglie, e anche per amore, non volendo lasciare esposta alle offese di Nerone l’unica donna che amava, le disse: “Ti avevo indicato come alleviare il dolore della vita, ma tu preferisci l’onore della morte: non mi opporrò a questo gesto esemplare. Possa la fermezza di una morte così coraggiosa essere pari in te e in me, ma sia più luminosa la tua fine”. Poi il ferro recide, con un colpo solo, le vene delle loro braccia. Seneca, poiché il corpo vecchio e indebolito dal poco cibo lasciava uscire lentamente il sangue, taglia anche le vene delle gambe e dei polpacci; e, stremato dalla intensa sofferenza, per non turbare col proprio dolore l‘animo della moglie, e per non essere indotto a cedere, di fronte ai tormenti di lei, la invita a passare in un’altra stanza. E, non venendogli meno l’eloquenza anche negli ultimi momenti, fece venire degli scrivani, ai quali dettò molte pagine che, divulgate, evito qui di parafrasare.Nerone però, non avendo motivi di odio personale contro Paolina, e per non accrescere l’odio nei confronti della propria crudeltà, ordina di impedirne la morte. Così, esortati dai soldati, schiavi e liberti le legano le braccia e le tamponano il sangue; non si sa se fosse cosciente. Non mancarono infatti, perché il popolo propende sempre per le versioni più maligne, persone convinte che Paolina avesse ricercato la gloria di morire insieme al marito finché ebbe paura dell’implacabilità di Nerone, ma che poi, di fronte ad una speranza migliore, fosse stata vinta dalla lusinga della vita. Dopo il marito, visse ancora pochi anni, conservandone molto degna memoria e con impressi sul volto bianco e nelle membra i segni di un pallore che testimoniava il fatto che molto del suo spirito vitale se n’era andato con lui. Seneca intanto, mentre la vita si protraeva in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico fidato e competente nell’arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da tempo, con cui si facevano morire in Atene le persone condannate da sentenza popolare. Dopo averlo ricevuto, lo bevve, ma senza effetto, perché le membra erano già fredde e il corpo insensibile all’azione del veleno. Entrò infine in una vasca d’acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, pensava al momento della fine.

Luca Giordano, La morte di Seneca, 1650–1675, Le Mans Crescent, Bolton, Greater Manchester, England

PIER VINCENZO COVA LA MORTE COME RITRATTO DI VIRTÙ (SENECA COME SOCRATE), “Giornale di Brescia”, 12 marzo 1996

Heiner MüllerLa morte di Seneca [1992]

Cosa pensò Seneca (e non disse)
Quando il capo della guardia di Nerone senza proferire parola
estrasse la sentenza di morte dalla sua corazza
col sigillo dell’allievo per il maestro
(aveva imparato a scrivere e ad apporre il sigillo
e il disprezzo per tutte le morti a parte
la propria:
regole d’oro di ogni arte dello Stato)
Cosa pensò Seneca (e non disse)
Quando vietò il pianto ad ospiti e schiavi
Che avevano condiviso la sua ultima cena con lui
Gli schiavi al capo del tavolo
LE LACRIME NON SONO FILOSOFICHE
DURA LEX SED LEX
E PER QUEL CHE RIGUARDA QUESTO NERONE CHE HA UCCISO
SUA MADRE E SUO FRATELLO PERCHÉ AVREBBE DOVUTO
FARE UN’ECCEZIONE CON IL SUO MAESTRO PERCHÈ
RINUNCIARE AL SANGUE DEL FILOSOFO
CHE NON GLI HA INSEGNATO A SPARGERE SANGUE
E quando fece aprirsi le vene
Quelle delle braccia dapprima e quelle di sua moglie
Che non voleva sopravvivere alla sua morte
Facendosele tagliare da uno schiavo probabilmente
Anche la spada su cui si lasciò cadere Bruto
Alla fine della sua speranza repubblicana
Dovette essere tenuta da uno schiavo
Cosa pensò Seneca (e non disse)
Mentre il sangue lasciava troppo lentamente
il suo corpo troppo vecchio e lo schiavo ubbidiente al padrone
Aprì le vene delle gambe e delle cavità poplitee
Sussurrando con corde vocali secche
I MIEI DOLORI SONO LA MIA PROPRIETÀ
PORTATE MIA MOGLIE NELLA STANZA ACCANTO E LO SCRIVANO A ME
La mano non poteva più tenere l’impugnatura dello stilo
Ma il cervello lavorava ancora La macchina
fabbricò parole e frasi e annotò i dolori
Cosa pensò Seneca (e non disse) tra le lettere del suo ultimo dettato
Immagazzinato sul divano del filosofo
E quando svuotò la tazza col veleno venuto da Atene
Perché la sua morte si faceva ancora attendere
E il veleno che aveva aiutato molti prima di lui
Riuscì a scrivere solo una nota a piè di pagina nel suo
corpo già quasi svuotato di sangue nessun testo chiaro
Cosa pensò Seneca (alla fine senza parole)
Quando andò incontro alla morte nella sauna
Mentre l’aria danzava davanti a suoi occhi
La terrazza si oscurò per il confuso battito d’ali
Non di angeli probabilmente anche la morte non è un angelo
nello scintillio di colonne al rivedere
Il suo primo filo d’erba che aveva visto
Su un prato vicino a Cordoba, alto come nessun albero

Peter Paul Rubens (1577-1640), Morte di Seneca, Alte Pinakothek, München.

PER APPROFONDIRE

James Ker, The Deaths of Seneca, Oxford University Press, 2009

“The forced suicide of Seneca, former adviser to Nero, is one of the most tortured–and most revisited–death scenes from classical antiquity. After fruitlessly opening his veins and drinking hemlock, Seneca finally succumbed to death in a stifling steam bath, while his wife Paulina, who had attempted suicide as well, was bandaged up and revived by Nero’s men. From the first century to the present day, writers and artists have retold this scene in order to rehearse and revise Seneca’s image and writings, and to scrutinize the event of human death.

In The Deaths of Seneca, James Ker offers the first comprehensive cultural history of Seneca’s death scene, situating it in the Roman imagination and tracing its many subsequent interpretations. Ker shows first how the earliest accounts of the death scene by Tacitus and others were shaped by conventions of Greco-Roman exitus-description and Julio-Claudian dynastic history. At the book’s center is an exploration of Seneca’s own prolific writings about death–whether anticipating death in his letters, dramatizing it in the tragedies, or offering therapy for loss in the form of consolations–which offered the primary lens through which Seneca’s contemporaries would view the author’s death. These ancient approaches set the stage for prolific receptions, and Ker traces how the death scene was retold in both literary and visual versions, from St. Jerome to Heiner Müller and from medieval illuminations to Peter Paul Rubens and Jacques-Louis David. Dozens of interpreters, engaging with prior versions and with Seneca’s writings, forged new and sometimes controversial views on Seneca’s legacy and, more broadly, on mortality and suicide. The Deaths of Seneca presents a new, historically inclusive, approach to reading this major Roman author”.

J. L. DAVID, Morte di Seneca, 1773, Oil on canvas, 123 x 160 cm Musée du Petit Palais, Paris

ALAIN DE BOTTON, The Consolations of Philosophy, New York, Vintage, 2000

Throughout his life, Seneca had faced and witnessed around him exceptional disasters. Earthquakes had shattered Pompeii; Rome and Lugdunum had burnt to the ground; the people of Rome and her empire had been subjected to Nero, and before him Caligula, or as Suetonius more accurately termed him, ‘the Monster’, who had on one occasion … cried angrily, “I wish all you Romans had only one neck!”.
Seneca had suffered personal losses, too. He had trained for a career in politics, but in his early twenties had succumbed to suspected tuberculosis, which had lasted six years and led to suicidal depression. His late entry into politics had coincided with Caligula’s rise to power. Even after the Monster’s murder in 41, his position had been precarious. A plot by the Empress Messalina had, through no fault of Seneca’s, resulted in his disgrace and eight years of exile on the island of Corsica. When he had finally been recalled to Rome, it had been to take on against his will the most fateful job in the imperial administration – tutor to Agrippina’s twelve-year-old son, Lucius Domitius Aenobarbus, who would fifteen years later order him to kill himself in front of his wife and family.
Seneca knew why he had been able to withstand the anxieties: I owe my life to [philosophy], and that is the least of my obligations to it. His experiences had taught him a comprehensive dictionary of frustration, his intellect a series of responses to them. Years of philosophy had prepared him for the catastrophic day Nero’s centurion had struck at the villa door.

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