Laocoonte

Virgilio, Eneide, II, vv. 201-242

Il testo latino.

Qui si presenta al nostro sguardo di sventurati un altro fatto più grave e molto più tremendo e sconvolge i nostri cuori sorpresi. Laocoonte, estratto a sorte come sacerdote di Nettuno, sacrificava un grosso toro presso gli altari solenni. Ma ecco che – tremo nel riferirlo – due serpenti con spire smisurate, da  Tenedo, per le profonde acque tranquille si ergono sul mare e si dirigono contemporaneamente verso la riva; i loro petti si ergono fra i flutti e le creste colore del sangue sovrastano le onde, la coda dietro percorre il mare e incurva in una spira i dorsi immensi. Si ode uno scroscio mentre il mare spumeggia ed ormai toccavano terra con gli occhi ardenti iniettati di sangue e fuoco, lambivano le bocche sibilanti con le lingue palpitanti. A quella vista fuggiamo impalliditi. I due serpenti con impeto sicuro si dirigono contro Laocoonte. Prima entrambi i serpenti avvinghiano serrandoli i piccoli corpi dei suoi due figli e sbranano a morsi le loro povere membra; poi afferrano anche lui che viene in soccorso brandendo le armi e lo avviluppano con le enormi spire e, avvinghiatolo con due giri attorno alla vita e avvintogli il collo con i dorsi squamosi, lo sovrastano con la testa e con i colli alti. Egli, con le bende sacre cosparse di sangue corrotto e nero veleno, si sforza con le mani di sciogliere i nodi; e leva al cielo urla strazianti come il muggito di un toro ferito che fugge dall’altare del sacrificio e scuote via dal collo la scure non piantata bene. I due serpenti, strisciando, fuggono verso gli alti templi e si dirigono sulla rocca della terribile Tritonide e si acquattano ai piedi della dea sotto la ruota dello scudo. Allora a tutti si insinua nei cuori tremanti un nuovo terrore e dicono che Laocoonte ha giustamente pagato per il suo delitto, lui che colpì con una lancia il sacro cavallo e scagliò sul suo fianco l’empio giavellotto. Gridano a gran voce che si deve condurre il simulacro al tempio e pregare il nume della dea. Facciamo una breccia nelle mura, e apriamo la cinta della città. Tutti si accingono al lavoro, pongono rulli scorrevoli sotto le zampe e tendono corde di stoppa intorno al collo. La fatale macchina da guerra sale le mura col ventre pieno di armi. I ragazzi e le vergini intorno intonano canti sacri e gioiscono nel toccare con la mano la fune. Quella sale e minacciosa scivola nel cuore della città. O patria, o Ilio casa degli dei e mura dei Dardanidi famose in guerra!

Laocoonte: variazioni sul mito. Engramma, saggi n.50.

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Francesca Bonazzoli, Laocoonte superstar La prima icona pop nella storia dell’arte, “Corriere della Sera”, 18 luglio 2013

Quando nel 1988 Roy Lichtenstein trasformava il Laocoonte in un’icona pop, rivisitando la statua greca come un fumetto dai colori accesi, arrivava solo buon ultimo. Il Laocoonte è infatti forse la più antica in assoluto delle immagini pop, quelle cioè fatte proprie dall’immaginario collettivo e trasformate dalla popolarità attraverso la parodia, la dissacrazione, la verniciatura con altri colori, la deformazione delle dimensioni, l’uso e il consumo come immagini riproducibili e vendibili a basso costo. Insomma, quando un’opera d’arte si trasforma in un poster, in un gadget o un souvenir, allora siamo di fronte a un capolavoro e nello stesso tempo a un’opera pop. Anche Basilewsky, in quella che considerava a buon diritto la sua prestigiosa collezione, conservava, probabilmente senza saperlo, un souvenir del Laocoonte. Precisamente un piatto realizzato a Urbino nel primo trentennio del Cinquecento. L’immagine del sacerdote troiano, assalito da grossi serpenti assieme ai due figli, vi appare dipinta in modo approssimativo, per nulla ossequioso della statua originale: insomma un prodotto a uso divulgativo, di cui all’epoca c’era grande smercio e richiesta.

La statua del Laocoonte, alta più di due metri e scolpita in marmo Pario, era stata ritrovata solo pochi anni prima a Roma, precisamente il 14 gennaio 1506, in una vigna vicino alla basilica di Santa Maria Maggiore. Fra i primi ad accorrere al dissotterramento di quella che si annunciava una grande scoperta, ci fu Michelangelo, spedito da Giulio II, avido di antichità, per verificare di cosa si trattasse. Ma non c’erano dubbi: la statua era talmente bella che non poteva essere che il Laocoonte di cui aveva scritto Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia affermando che si trovava nella villa dell’imperatore Tito. Il prestigio di tale fonte, in un’epoca che aveva appena riscoperto lo studio e il collezionismo dei testi classici da parte degli umanisti, conferì subito alla statua un’aura quasi mitica. L’eccitazione per il suo ritrovamento è testimoniata nella corrispondenza di ambasciatori, prelati, letterati; registrata attraverso disegni, stampe, dipinti e celebrazioni poetiche. Tale fu la risonanza che persino il popolo analfabeta fu coinvolto e pare che durante il trasporto della statua dal colle Esquilino a quello Vaticano, la folla festante lanciasse fiori. Il Papa riuscì ad aggiudicarsi il marmo promettendo un vitalizio al proprietario del terreno in cui era stato scavato e lo collocò, assieme ad altre statue antiche, nel cortile del Belvedere che Bramante stava realizzando. Con tali proprietari (l’imperatore Tito e il Papa), tale storia (narrata nientemeno che da Plinio) e tale collocazione (il Belvedere) la statua era consacrata. 

La Laocoonte-mania doveva essere talmente diffusa e stucchevolmente di moda che Tiziano, in visita a Roma, non resistette dal farne una caricatura con tre scimmie (alter ego degli artisti, ma anche dei collezionisti) al posto del sacerdote e dei suoi figli. Il foglio fu inciso e stampato in molti esemplari ma dovunque, anche nelle bancarelle di strada, si potevano trovare repliche di ogni dimensione e materiale: in cera, come soprammobile per le case più povere; in stucco, bronzo, terracotta, pietre dure, porcellana e naturalmente anche in versione bidimensionale, dipinte in piatti come quello acquistato, secoli dopo, da Basilewsky per la sua collezione parigina. Non a caso, fu proprio nella Parigi di Napoleone che il Laocoonte ebbe un grande revival di popolarità: il generale fu infatti l’unico sovrano che riuscì a sottrarre il capolavoro ai papi e a portarlo nel 1798 a Parigi con un corteo trionfale. Ma la conquista fu effimera perché, dopo la Restaurazione, il Laocoonte riprese la strada di Roma. Entrambi i viaggi regalarono però alla statua una nuova enorme visibilità e, da simbolo per eccellenza del dolore, il Laocoonte si trasformò, nell’immaginario popolare, in un simbolo politico, sostenuto dal revanchismo alterno di francesi e italiani. Uno slittamento semantico che persisteva ancora nel Novecento quando, in una vignetta americana, il presidente Nixon veniva disegnato mentre combatteva contro i serpenti di un nastro magnetico, allusione allo scandalo Watergate che, evidentemente, la rendeva da tutti compresa. Diceva Italo Calvino che un testo è classico quando non finisce mai di dire quel che ha da dire.

“Io sono come Laocoonte: mi inghirlando artisticamente coi serpenti e mi faccio ammirare; poi ogni tanto mi accorgo dello stato in cui sono e allora scrollo i serpenti; gli tiro la coda, e loro strizzano e mordono. È un gioco che dura da vent’anni. Comincio ad averne abbastanza”. Cesare Pavese, 1950

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