I capricci della natura

ALESSANDRO PIPERNO, “La Lettura”, 25 agosto 2019

Che cosa provocò il crollo della gigantesca costruzione imperiale romana? La corruzione civile e morale, come raccontò Edward Gibbon? Oc’è dell’altro? Qualcosa che ha a che fare con il clima, un clima imprevedibile e ingovernabile? Ecco, sostiene ora Kyle Harper, «la civiltà umana è il risultato di un frammento anomalo della storia». Che tracotante impostura è l’antropocentrismo

Ahimè, non sono un antichista. Come climatologo le mie credenziali si esauriscono nella compulsiva attenzione prestata alle previsioni del tempo. Del resto, non credo che l’ipocondria che mi affligge da che ho memoria faccia di me un esperto di morbi, parassiti o pandemie. E tuttavia eccomi qua — negli abiti casual del dilettante — alle prese con le gigantesche questioni poste da Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero di Kyle Harper, il libro che mi ha accompagnato in questo ultimo scorcio di estate.

Che opera intricata e seducente. A dispetto della gravità dell’argomento, dell’imbarazzante vastità della sua investigazione, la prosa di Harper ha un timbro ironico, colloquiale, a tratti persino scanzonato. Gli strumenti metodologici di cui si avvale sono talmente eclettici da coniugare con disinvoltura epigrafia, letteratura medica, geologia, demografia e paleo-climatologia. Insomma, Harper non si risparmia pur di darci la sua audace interpretazione—lasciatemelo dire, straordinariamente truculenta e implacabilmente settaria — del declino di Roma: ovvero del più sconvolgente fenomeno di implosione politica, decadenza economica, entropia socio- culturale che la storia abbia conosciuto.

Qualche incauto recensore, spinto da legittimo entusiasmo, ha azzardato inazzardabili paragoni con la Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano di Edward Gibbon. Lascerei la monumentale opera settecentesca sugli scaffali che le competono: quelli dei capolavori della letteratura universale. Quando anni fa, per preparare un corso sulla retorica decadente, mi capitò di avere a che fare con il caro vecchio Gibbon, ne uscii con le ossa rotte. Ciò detto, bisogna ammetterlo: per affrontare il libro di Harper, anche da inesperti, occorre avere presenti le teorie di Gibbon in merito alla lenta, inesorabile, ingloriosa fine dell’impero di Roma. Un evergreen della storiografia moderna. Stando a Gibbon, il declino e il crollo del più maestoso impero dell’antichità fu originato dall’interazione di fattori tanto diversi quanto ineluttabili: indebolimento delle strutture burocratiche, perdita di senso dello Stato, ricorso eccessivo ai mercenari, la pressione dei barbari, e soprattutto la corruzione morale subdolamente inflitta dal diffondersi della religione cristiana. Come disse lo stesso Gibbon a commento delle sue mirabolanti erculee fatiche di studioso: «Ho descritto il trionfo della barbarie e della religione ». D’altronde, per lui la Storia non era altro che un «elenco di crimini, follie e sventure del genere umano».

Cambio di prospettiva

Da qui parte l’indagine di Harper: o per meglio dire, da qui muove il suo tentativo di sovvertire i termini della questione. E se gli uomini, si chiede, non fossero i soli responsabili di tale immedicabile disastro? Gli unici attori di questa tragica pantomima della dissoluzione? E se gli eventi che portarono l’impero romano prima alla disgregazione e poi al collasso non fossero imputabili soltanto alla cecità della classe dirigente e all’infiacchimento degli ordinamenti politici, religiosi e civili dell’impero?

E se la diffusione del cristianesimo—contro cui si scagliava l’illuminista Gibbon—fosse solo un effetto collaterale del cataclisma, non una delle principali concause? In parole povere, se noi uomini non fossimo i protagonisti della nostra vita, come amiamo ripeterci? Se l’incubo da cui Stephen Dedalus stentava a svegliarsi fosse meno scontato di quanto lui stesso non fosse portato a ritenere? Chi ci dice che, nelle grandi dinamiche della Storia, le forze in campo non possano essere più numerose e complesse di quelle che siamo soliti enumerare?

Ma talmente subdole, circospette, così ardue da misurare e indifferenti alla nostra sorte, da passare inosservate persino agli sguardi di spiriti eletti. E sto parlando di pesi massimi del pensiero (Michelet, Hugo, Manzoni, Tolstòj), insomma di chiunque si sia interrogato sul senso e sul significato della storia umana.

«La maggior parte delle trattazioni storiografiche della caduta di Roma—scrive Harper—poggiano sulla tacita quanto mastodontica premessa secondo cui l’ambiente faceva da sfondo stabile e inerte allo sviluppo storico. Come sottoprodotto del nostro urgente bisogno di comprendere la storia del sistema Terra, e grazie ai vertiginosi progressi nella nostra capacità di recuperare i dati relativi alla paleoclimatologia e alla storia genomica, sappiamo che tale premessa è errata, anzi, non è semplicemente errata, ma sbagliata in modo impudente e sconcertante. La Terra è stata ed è una piattaforma oscillante su cui si svolgono le vicende umane, instabile come il ponte di una nave in un violento fortunale. I suoi sistemi fisici e biologici rappresentano uno scenario incessantemente mutevole e ci costringono, in quanto esseri umani, a quello che John Brooke ha definito “un viaggio disagevole”».

Immagino che l’approccio di Harper appartenga a un filone di studi assai più diffuso di quanto non appaia a un profano, un incompetente come me. E tuttavia l’uso che ne fa è elettrizzante e istruttivo, ben oltre l’amplissimo campo di indagine che investe e coinvolge.

Optimum climatico romano

Harper parte proprio dagli e venti benigni, dopotutto casuali e del tutto indipendenti dalla volontà umana, che favorirono l’ascesa di Roma, soffermandosi sulla fortuna sfacciata di cui godettero i primi imperatori. «L’impero raggiunse la sua massima estensione e prosperità nelle pieghe di un periodo tardo-olocenico chiamato Optimum climatico romano (Ocr). L’Ocr si manifesta come una fase di clima caldo, umido e stabile in gran parte dell’area continentale mediterranea (…). Mentre estendevano il loro impero fino alle sue estreme propaggini, i Romani non avevano alcuna idea delle basi ambientali, contingenti e precarie, di quanto avevano costruito». La tesi di Harper è tutta qui. «L’influenza del clima sulla storia romana si rivelò ora appena percettibile e ora travolgente, ora alternativamente costruttiva e distruttiva. Il cambiamento climatico, tuttavia, fu sempre un fattore esogeno, una carta imprevedibile e caotica che, trascendendo tutte le altre regole del gioco, rimodellò dall’esterno i fondamenti demografici e agrari della vita, da cui dipendevano le strutture più elaborate della società e dello Stato. Gli antichi adoravano giustamente la temibile dea Fortuna, con la chiara sensazione che i poteri sovrani di questo mondo erano in ultima analisi imprevedibili e capricciosi».

Harper fa coincidere il primo voltafaccia della Fortuna con i sopraggiunti cambiamenti climatici avvenuti intorno alla seconda metà del II secolo d. C.. Con il corollario inevitabile di carestie e malattie infettive, all’epoca per lo più incurabili. Del resto, anche il ritratto che Harper fa del periodo precedente—quello che Gibbon giudicava il più «prospero e felice della storia umana », dalla morte di Domiziano (96 d. C.) all’avvento di Commodo (180 d. C.)—visto con i nostri occhi non appare tra i più idilliaci. L’aspettativa di vita non superava i trent’anni, il tasso di mortalità infantile era una piaga inesorabile e luttuosa. Viene da chiedersi se tutto lo stoicismo di Marco Aurelio non provenisse dai figli che aveva dovuto seppellire.

Occorre tenerlo a mente, quando veniamo presi da nostalgie struggenti per epoche edeniche dell’Antichità o del Rinascimento. Non sta bene fare il caso personale, ma tanto per dire, fino a un secolo fa, le malattie esantematiche (morbillo, varicella) che hanno caratterizzato la mia prima infanzia e i piccoli acciacchi che hanno funestato la mia vita adulta (appendicite, calcoli renali) erano letali.

Pandemie, carestie, emigrazioni

Harper è fatto così. Anche nel ripercorrere per sommi capi gli anni d’oro dell’impero, si guarda bene dal soffermarsi sugli splendori raggiunti da quell’immensa superpotenza antica. Preferisce dare conto della capacità delle sue istituzioni e dei suoi cittadini di resistere agli umori capricciosi della Fortuna, alla furia iconoclasta degli elementi, al cambio repentino delle condizioni ambientali. Harper chiama in causa la resilienza. L’atteggiamento dei Romani nei confronti del pianeta che avevano l’illusione di conquistare, scrive Harper, era quello di chi resiste, di chi si adatta, di chi cerca in ogni modo di non essere sopraffatto. Le virtù romane erano un misto di forza spirituale e flessibilità emotiva, ma la vita, quella di tutti i giorni, almeno per i nostri canoni, era un inferno. «Persino per gli standard delle società sottosviluppate, gli abitanti del mondo romano erano malaticci. Potremmo dire che erano, come Aristide, ricchi ma malati. Le città fetide erano autentiche capsule di Petri per i parassiti intestinali meno gravi».

Dalla prospettiva di Harper, allora, la storia romana si configura come una cronaca ininterrotta di flagelli che dalla metà del II secolo in poi, con il sopraggiungere dei primi sconvolgimenti climatici, assunsero dimensioni bibliche. Harper dedica pagine crude e dettagliatissime alle spaventose pandemie che sconvolsero la demografia dell’impero: dalla peste antonina che fece milioni di vittime alla peste bubbonica esplosa sotto Giustiniano. «La comparsa della Y. pestis fu un evento epocale nella storia della specie umana. Forse mai prima d’allora il genere umano aveva avuto davanti a sé un nemico così letale e astuto. Le due grandi pandemie di peste che aprirono e chiusero il Medioevo furono, in termini relativi, le più gravi catastrofi biologiche della storia». Insomma, stando a Harper, l’impero romano, con il suo sogno di globalizzarsi, con i suoi nuclei urbani sovraffollati, con i suoi commerci intercontinentali non fece altro che preparare l’habitat giusto per la diffusione dei germi che lo avrebbero distrutto. D’altra parte, sempre secondo Harper, le invasioni barbariche (a cominciare da quella degli Unni, nel V secolo, la più celebre e spietata) non furono altro che migrazioni indotte dai prolungati periodi di siccità che colpirono le gelide taighe orientali.

Il merito di libri come questo—e non parlo dei pregi accademici, peraltro ragguardevoli — è di relativizzare in modo truce l’importanza della nostra specie; non solo di fronte all’universo, ma anche in rapporto al pianeta che, tra alti e bassi, ci ospita da un bel pezzo. «La civiltà umana — con agricoltura, grandi formazioni statali e via dicendo — è il risultato di un frammento anomalo della storia noto come Olocene» ci ricorda Harper en passant.

Nel leggere queste righe viene facile tornare a certi versi di Lucrezio e dell’ultimo Leopardi, o alle chiose più scettiche di Montaigne. Allora capisci che non c’è impostura più ridicola e tracotante dell’antropocentrismo. Se da un lato la storia umana non ha senso né scopi precisi, dall’altro essa è l’effetto di alcune rocambolesche circostanze biologiche che potrebbero venire meno domani mattina. Ricordarsene ogni tanto fa bene all’umore.

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Il sito latinorum.tk è nato per accompagnare le mie lezioni dedicate alla cultura latina, per proporre divagazioni "extra ordinem" sulla classicità e per condividere in rete percorsi e materiali. Si tratta di un lavoro in fieri, che si arricchirà nel tempo di pagine e approfondimenti. Grazie anticipatamente a chi volesse proporre commenti, consigli, contributi: "ita res accendent lumina rebus…" Insegno Italiano & Latino al Liceo Scientifico ”G. Galilei” di San Donà di Piave, in provincia di Venezia. Curo anche il blog illuminationschool.wordpress.com e un sito dedicato a Dante e alla Divina Commedia, www.dantealighieri.tk.
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