I Parti in balìa di Roma

GIOVANNI BRIZZI, “Corriere della Sera – La Lettura”, 15 luglio 2018

Dopo la terribile sconfitta subita a Carre, le legioni si organizzarono con altre armi e misero alle strette
i loro nemici orientali in Mesopotamia. Ma poi le rivolte giudaiche costrinsero alla ritirata l’esercito dell’Impero

Pubblicato nel 2010, il libro Le guerre di Roma contro i Parti di Rose Mary Sheldon, docente all’Università del Michigan, appare ora in traduzione italiana per la Libreria Editrice Goriziana. Non di tutto il volume, oltre 400 pagine, potrò riferire. Non toccherò quindi, benché solo in parte ne condivida gli sviluppi, il grande tema dell’ambizione di Roma a un «governo e un dominio universali». Quanto alla questione, tuttora dibattuta, della Great Strategy, se cioè Roma avesse o no «una “grande strategia”… per i confini» o se calibrasse di volta in volta il suo approccio, pertinente al tema del libro, mi limiterò a sottolineare che il confronto con un avversario come lo Stato arsacide dei Parti richiedeva mezzi amplissimi, assai superiori alle risorse di qualsiasi provincia. Costretti a controllarsi l’un l’altro, i governatori romani disponevano di forze ridotte, ed erano inabili a ogni più vasta strategia; sicché, almeno a partire dall’età imperiale un attacco contro i Parti era possibile, di norma, solo su impulso di un solido potere centrale. Con buona pace della nostra studiosa, quindi, i moventi reali capaci di muovere queste azioni non furono mai la semplice brama, stolta perché antieconomica, di bottino o di una conquista fine a sé stessa.

Il volume presenta, fin dall’introduzione, alcuni limiti. Pur intuendone i rischi, l’autrice cede infatti alla suggestione di un’analogia con la condotta e gli esiti recenti dell’azione Usa nella stessa regione; e, specialista nei problemi di intelligence, coglie nelle carenze informative dei Romani, assimilate a quelle della potenza a stelle e strisce, l’elemento capace di riequilibrare una bilancia militare altrimenti favorevole a Roma. La spiegazione, pur valida (a fomentare l’insurrezione ebraica contro i Romani del 115 d.C., su cui torneremo, potrebbero essere stati agenti partici…), è però parziale. Uno studio che si prop one come un’opera, mai scritta, «sulle campagne militari tra Roma e i Parti» non può ignorare gli aspetti tattici e funzionali delle opposte strutture belliche e la loro evoluzione, fondamentale a spiegare gli esiti diversi di guerre asimmetriche come quelle trattate.

Toccando sommariamente la battaglia di Carre, in cui le legioni furono battute dai Parti nel 53 a.C., l’autrice non sfiora il problema della «tragica impotenza dell’esercito romano» in quella circostanza. Eppure, come scrisse lo storico Albino Garzetti, questo è il «nucleo della questione», ma «si risolve per lo più nel ricostruire come avvenne la sconfitta, non nel determinare perché avvenne». Definita feudale come lo Stato che l’esprimeva, quella partica era un’armata soprattutto di cavalieri — cavalleria pesante catafratta che inquadrava l’alta aristocrazia; e cavalleria leggera, gli hippotoxotai, arcieri montati, liberi e nobiltà minore armati con il potente arco composto delle steppe —, che combinava potenza di tiro e forza d’urto. Surena, il nobile che la comandava a Carre, rovesciò le tattiche tradizionali contro nemici appiedati; e la soluzione riuscì fatale alle legioni di Crasso, dotate di armamento insufficiente (la cotta di maglia era vulnerabile alle frecce, mentre i pila, i giavellotti leggeri, incapaci di raggiungere gli arcieri che restavano fuori tiro, erano inutili contro i catafratti). Logorato dai ripetuti caroselli degli inafferrabili hippotoxotai ed esposto alle cariche dei cavalieri corazzati ogni volta che cercava di dispiegarsi, l’esercito di Crasso, demoralizzato, finì per sbandarsi e fu quasi interamente distrutto.

Questa superiorità tattica, però, poco a poco si dissolse. Contrariamente a quello partico, rimasto immutato, l’esercito romano prese a evolversi; prima introducendo, dall’età di Antonio, i frombolieri che offrivano alle legioni un efficace tiro di protezione contro gli archi partici, poi una nuova corazza a lame, la lorica segmentata, capace di annullare l’effetto delle frecce, e un pilum pesante dalla penetrazione accresciuta, in grado di scavalcare i catafratti o di trapassarne le corazze e persino, a breve distanza, di arrestarne le cariche. La simbiosi funzionale tra le due componenti dell’esercito nemico venne così spezzata. Se i catafratti, mastodontici e lentissimi, avevano avuto qualche possibilità solo contro legionari schierati per coorti, vulnerabili alle cariche, la nuova arma metteva ora in grado di difendersi persino questi reparti.

Quanto agli arcieri, fondamentali per lo sforzo militare partico, per poter arrecare danni reali ad un’armata romana da campagna il loro attacco swarming, a sciame, doveva poter colpire indisturbato più e più volte, infiggendo migliaia di aculei nel corpo della compagine nemica. Ora però, grazie alla nuova armatura, questa era meglio protetta; e le condizioni di Carre non si ripeterono più. Troppo preziosa per venir esposta in attacchi che rischiavano di riuscirle fatali, la cavalleria pesante fu forse ritirata allora dai campi di battaglia per oltre un secolo; e ciò finì col ridurre l’efficacia anche degli arcieri. Privati dell’appoggio dei catafratti, questi avevano ormai solo opzioni tattiche limitate. Contro eserciti veri e propri, composti da una ben dosata combinazione di forze differenziate, gli hippotoxotai da soli avevano possibilità quasi nulle: per scagliare i loro dardi, resi inutili dalla nuova corazza, essi dovevano infatti prima superare lo sbarramento costituito da dense cortine di frombolieri balearici o cretesi, di arcieri osroeni e persino, dall’età di Traiano, di macchine mobili da getto, le cosiddette carroballistae. Oltre che poco produttivo e costoso in termini di vite, un attacco troppo insistito rischiava di riuscire fatale. Non più scortate da presso dai cavalieri corazzati, queste formazioni contavano per sopravvivere solo sulla loro mobilità: una volta sfiancati i cavalli, non avrebbero più potuto sfuggire alle cavallerie tracia e gallica e ancor meno, forse, ai celebri numeri Mauri, agli squadroni berberi che accompagnavano le grandi formazioni romane di fanteria. Ai Parti rimase così una sola risorsa: l’agguato o la rapida incursione seguita da una pronta ritirata e chiusa spesso dal colpo sferrato durante la fuga, la «freccia del Parto». E la guerriglia… Ma se i Parti assai se ne giovarono, a condurla per loro furono soprattutto gli Ebrei. Per limitarci alla campagna di Traiano, la coeva rivolta ebraica iniziò, come dimostrano i testi su papiro, in Cirenaica nel 115 d.C., quasi due anni prima che tra le comunità babilonesi. E fu spaventosa. Si può dubitare delle fonti scritte, non dell’archeologia: a Cirene, scrisse Sandro Stucchi, «i danni subiti… dal patrimonio monumentale» ad opera degli insorti appaiono «paragonabili a quelli di un pauroso cataclisma». Fu questo cataclisma, altrettanto grave a Cipro e in Egitto, a risucchiare indietro le legioni vittoriose dalla capitale nemica Ctesifonte, permettendo la riscossa partica in Mesopotamia.

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