Il romano che flagellò Attila

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GIOVANNI BRIZZI, Ezio ultimo eroe d’Occidente, “La Lettura”, 31 dicembre 2017

L’uscita in traduzione del bel volume di Ian Hughes Ezio. La nemesi di Attila (Leg) stimola a una riflessione su un personaggio straordinario, ancorché a molti sconosciuto e, certo, meno noto di quell’Attila del quale, come recita il sottotitolo, egli pure fu il vincitore e addirittura la nemesi. Eventi narrati anche dal recente romanzo storico Flavio Ezio di Emilio Paterna (Castelvecchi). Comandante militare dell’Impero romano d’Occidente dal 425 al 454, per quasi trent’anni (Stilicone, altro valoroso condottiero, lo fu solo per tredici…), Flavio Ezio (amerei maggiormente la grafia Aezio, alla latina) fu, di fatto, un autentico katechon, costituì cioè l’elemento umano capace di ritardare un processo irreversibile, la fine dell’Impero che profondamente amava, così da rappresentare l’indiscusso protagonista di un’età incerta, travagliata e complessa, i decenni, fragorosi, che precedono la «caduta senza rumore» dell’Occidente romano. Trattare di lui in modo completo non è possibile in questa sede. Ci limiteremo quindi, partendo dal sottotitolo del libro di Hughes, a definire uno degli aspetti fondamentali di questa figura, quello del grande capo di guerra, limitandoci per di più a una fase soprattutto, l’ultima, della sua attività.

Comandante straordinario, durante la sua vita Ezio fu infatti militarmente impegnato in ben quindici campagne; e fu battuto una volta soltanto, da Bonifacio a Rimini, nella primavera del 432. Qui, fors’anche per ovviare alla schiacciante superiorità numerica di cui godevano le forze avverse, il nostro avrebbe cercato, nel segno della più nobile tradizione eroica di Roma, la singolar tenzone con il comandante nemico, e lo avrebbe infine ucciso; ma sarebbe stato ugualmente sconfitto. Fu pe rò contro il leggendario capo degli Unni, sua vittima illustre (nel Chronicon ad ann. 451 lo storico Marcellino lo definisce «terrore del re Attila»), che rifulse al mas-simo il valore di Ezio: e se la vittoria ai Campi Catalaunici (451 d.C.), l’unica sconfitta che Attila abbia mai subito in acie, in campo aperto, autentico capolavoro tattico, non impedì all’Unno, fortunosamente salvatosi dall’annientamento, di ritentare, invadendo l’anno dopo l’Italia, anche la successiva campagna nella nostra penisola vide rifulgere l’abilità di Ezio. Non alla miracolosa ambasceria di papa Leone I, attestata da Prospero ma trascurata da Idazio, bensì di nuovo al genio, questa volta strategico, di Ezio si deve almeno in parte anche il secondo insuccesso, destinato a essere definitivo, di Attila; un insuccesso che portò poco dopo alla dissoluzione dell’impero unno. Entrambe le campagne mossero — sembra — da un identico presupposto; quello di logorare le forze dei barbari delle steppe impegnandoli nell’assedio di una piazza ben difesa. A trattenere gli Unni fu, nel primo caso, Orléans; salvata in tempo la quale, Ezio inseguì le forze nemiche fino al Campus Mauriacus. Qui, fra Troyes e Chàlons-sur-Marne, ebbe luogo, ai Campi Catalaunici, la decisiva «battaglia delle nazioni» (Giuseppe Zecchini) tra i Romani, i loro foederati germanici (Visigoti, Alani, Franchi) e l’armata unna, rafforzata a sua volta dagli Ostrogoti e da altri alleati minori. Nel resoconto dello storico Giordane, Ezio, che aveva occupato un colle tra i due eserciti rafforzando la propria sinistra, respinse l’attacco di Attila, mentre i Visigoti prima travolsero gli Ostrogoti sulla loro destra, poi corsero in aiuto dei più fragili Alani di Sangibano, schierati sul centro, che ancora resistevano. Se lo schieramento adottato (con i Romani a sinistra e le unità più deboli al centro) sembra aver fatto scuola alle età successive, poiché torna, teorizzato, nello Strategicon di Maurizio (580 circa), la tattica di tener fermo il nemico, appoggiandosi anche, in chiave difensiva, su un elemento naturale e aggirandolo poi sul proprio lato forte, richiama alla memoria scontri ormai remoti, come il Metauro (contro i Cartaginesi, 207 a.C.) o Cinocefale (contro i Macedoni, 197 a.C.), ben degni dell’«ultimo dei Romani», come lo definì Procopio. Comunque sia, Attila — che, ritiratosi nel suo campo, era ormai rassegnato alla fine e già si era fatto erigere il rogo funebre — fu salvato dalla morte sul campo del re visigoto Teodorico I, sostituito dal figlio Torrismondo, di spirito decisamente antiromano, il quale abbandonò le file della coalizione. Cadde invece Aquileia, l’ anno dopo, saccheggiata e distrutta; ma l’mperizia negli assedi aveva rallentatola marcia degli Unni, permettendo a Ezio, che non aveva truppe sufficienti, di cercare aiuti presso il sovrano d’Oriente Marciano e di organizzare la difesa della penisola. Attila riuscì ad occupare Milano e Pavia, ma fu messo ben presto in difficoltà, oltre che dalla carestia e dalla peste imperversanti in Italia, anche da una micidiale guerriglia che ne esauriva le forze. Quando l’ambasceria composta da papa Leone I, da Gennadio Avieno e da Trigezio, tutti legati a Ezio, lo raggiunse sul Mincio, Attila aveva già ordinato la ritirata; anche perché le forze dell’Impero d’Oriente premevano sui suoi confini. Più che la morte del «flagello di Dio», avvenuta l’anno seguente, a impedire ogni rivincita fu l’ormai tragica debolezza dell’impero unno, destinato a crollare definitivamente nel 455. Fu la duplice sconfitta di Attila a decidere, in fondo, il destino dell’Occidente: avesse vinto ai Campi Catalaunici, l’Unno sarebbe riuscito verosimilmente a occupare la Gallia, aggregando alla compagine che già controllava i Visigoti e i Franchi; avrebbe sostituito nella carica suprema di magister militum lo stesso Ezio e si sarebbe in pratica insignorito dell’Occidente, della regione gallica in particolare, una trentina d’anni prima del crollo dell’Impero, rendendo forse impossibile nel segno della «barbarie» e della «diversità» unna — il «popolo dei cavalli» — l’integrazione del mondo germanico nella società romano-cristiana. Vinse invece Ezio, «tradizionalista e veteroromano… tutto rivolto al passato e incapace di concepire una realtà politico-sociale diversa da quell’Imperium Romanum che gli si stava dissolvendo tra le mani nonostante i suoi eroici sforzi»: così, nella chiusa del suo bellissimo volume Aezio, l’ultima difesa dell’Occidente romano (L’Erma di Bretschneider, 1983), Zecchini ne definisce la figura e il ruolo.  Con la morte del suo estremo difensore, vittima forse soprattutto di un contrasto dinastico suicida, la fine dell’impero di Occidente divenne inevitabile: per affidarci una volta ancora alle parole di Marcellino, «con lo stesso (Ezio, ndr) cadde l’Esperto regno, né finora è stato capace di risollevarsi».

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Il possibile sito della battaglia dei Campi Catalaunici, nei pressi di Troyes, Francia.

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