La vera storia di Cleopatra è un dark-thriller politico


Scultura romana di Cleopatra VII al Antikensammlung Museum, Berlino (Ph. by Sailko, CC by 3.0, via Wikimedia Commons)

Marino Niola, “La Repubblica”, 12 dicembre 2018

Un saggio narrativo di Alberto Angela sulla più celebre primadonna del mondo antico

Senza Cleopatra il mondo non sarebbe lo stesso. La sua bellezza leggendaria, la sua intelligenza spiazzante e la sua cultura raffinata ne hanno fatto l’indiscussa primadonna sulla scena dell’antichità. La protagonista assoluta di quel periodo tempestoso che va dall’uccisione di Cesare alla nascita dell’impero augusteo.
Adesso, tutto quello che avreste voluto sapere sulla mitica regina e che non avete mai osato chiedere, lo trovate nel nuovissimo libro di Alberto Angela, Cleopatra. La regina che sfidò Roma e conquistò l’eternità (Rai Libri e HarperCollins, pagine 446).
Un testo, dotato di immagini e cartine, che illumina il pubblico e il privato della donna più chiacchierata, amata e odiata di sempre.
Angela, con il talento del narratore e l’immediatezza comunicativa del divulgatore ricostruisce l’affaire Cleopatra seguendola come un reporter.
Minuto per minuto, ora per ora, domus per domus. La pedina con il suo passo felpato, mettendo sempre i fatti al centro della narrazione.
Sia gli eventi storicamente accertati, sia quelli ricostruiti attraverso indizi, congetture, intuizioni. Il risultato è un affresco storico avvincente e convincente. Pieno di azione e di emozione.
Come quando racconta la reazione della sovrana d’Egitto che, nella sua lussuosa villa al di là del Tevere, riceve la notizia dell’assassinio di Cesare. In quel momento in cui il futuro del suo Paese e dell’intero Mediterraneo è sospeso come sulla lama di una spada, il crollo del suo progetto politico si sovrappone alla fine del suo sogno d’amore e alla sua inquietudine di madre per la sorte del figlio Cesarione.
E mentre il popolo romano interrompe i festeggiamenti in onore della dea Anna Perenna si chiude in casa fra timori e tremori.
L’autore lancia i protagonisti della vicenda come dadi sul panno verde della storia.
Antonio, Bruto, Cassio, Ottaviano, Agrippina, Mecenate. Col trascorrere delle pagine «questi dadi, rotolando e piroettando, prima di fermarsi mostreranno una faccia vincente, poi una perdente, poi di nuovo una vincente e così via, in un crescendo di tensione in cui non si capirà mai chi stia per trionfare».
Da narratore accorto, Angela crea e ricrea, sequenza dopo sequenza, un clima di suspence, come in un giallo di cui è noto l’epilogo, ma sono molto meno chiare le trame e i retroscena che conducono il thriller verso la sua conclusione.
Insomma oltre l’aspide c’è di più. C’è perfino il sospetto che fosse un cobra. O addirittura che la donna abbia bevuto un cocktail letale, il che scagionerebbe il serpente.
Angela sottopone la vicenda a un trattamento cinematografico. Pieno di inquadrature inaspettate, di particolari dimenticati, di messe a fuoco rivelatrici.
Come quella dove Cleopatra, vestita da Afrodite sotto un baldacchino d’oro nella sua barca dai remi d’argento, seduce Antonio in un’atmosfera tra l’erotico e l’estatico.
In realtà dietro quella scintillante spirale di languore c’è il lucidissimo disegno della regina che cerca protezione per il suo regno, vuole tracciare dei confini entro cui essere amata, come le farà dire Shakespeare.
Bella e non solo, dunque. In questo senso l’autore ha il merito di aver fatto emergere, dietro la maschera della femme fatale, della «Cleopatràs lussuriosa» come la chiama Dante, la realtà di una donna ricca e colta, maestra dell’arte della persuasione e grande mediatrice tra Oriente e Occidente.
Un grande simbolo di quella globalizzazione prima della globalizzazione che fu l’ellenismo. In effetti il racconto di Alberto Angela fa uscire Cleopatra dal mito per farla entrare nella storia e infine la restituisce al mito. Ma con tutti gli onori.

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Eros, amicizia, nozze: Eva Cantarella racconta gli affetti dei greci e dei romani

 

Alma-Tadema, A_coign_of_vantage, 1895

Giulia Ziino, Nel cuore degli antichi, “Corriere della Sera”,  7 dicembre 2018

Classicità «Gli amori degli altri» (La nave di Teseo): una mappa dei sentimenti che segue il filo del mito e della storia

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Di sicuro di qualcosa che cambia attraversando i secoli e le geografie. Altrimenti come potremmo portare come esempio di matrimonio riuscito quello di Marzia e Catone? Sposati, due figli all’attivo e lei incinta del terzo, Catone pensa bene di cederla all’amico Ortensio che, per rinsaldare il legame amicale, gli chiedeva di avere dei «figli in comune». Marzia, ceduta suo malgrado, partorisce in casa del nuovo consorte il figlio di Catone e, più tardi, ne concepisce anche uno con Ortensio. Quando quest’ultimo, sessantenne all’epoca delle nozze, muore, Marzia torna da Catone. Secondo Lucano, che lo racconta nella Farsalia, la donna (con ancora tra i capelli la cenere della pira di Ortensio) bussa al portone del primo marito e lo implora: «Ho fatto quello che mi hai ordinato di fare. Ora torno da te, sfinita dai parti, in uno stato nel quale non posso essere ceduta a un altro uomo. Concedimi di riannodare i casti legami del primo letto, dammi soltanto il nome di moglie, così che sulla mia tomba possa essere scritto: Marzia, moglie di Catone». E Catone, prontamente, apre la porta.
Niente di strano, a Roma, dove cedere una moglie ancora in grado di procreare era cosa considerata normale. Anzi buona e giusta, poiché liberava il primo marito dal rischio di mettere al mondo troppe bocche da sfamare e dava invece al secondo la possibilità di avere figli. Tutto senza che la capacità di generare della donna andasse sprecata in epoche — come quella di Augusto — in cui la denatalità stava diventando un’emergenza sociale. E c’era anche chi, tra le matrone, sapeva fare buon viso a cattivo gioco e sfruttare la situazione. Come Livia, anche lei sposata e in attesa del secondogenito, ceduta (non si sa quanto spontaneamente) dal marito ad Augusto, che se ne era innamorato a prima vista (e per lei non aveva esitato a ripudiare la moglie Scribonia il giorno stesso in cui costei aveva partorito la loro unica figlia, Giulia). Livia sposa il princeps e sfrutta a suo vantaggio la situazione riuscendo a fargli succedere Tiberio, il figlio avuto dal primo marito. Operazione portata a termine al netto di due morti sospette (quelle dei figli di Giulia, nipoti diretti di Augusto, avvelenati, scrive Tacito, «a seguito delle trame della matrigna Livia») e di un altro matrimonio (quello fra Giulia e lo stesso Tiberio).
Cessioni, divorzi, ritorni. Li racconta Eva Cantarella in Gli amori degli altri (La nave di Teseo). Dove gli altri sono i greci e i romani, antenati da cui molto deriviamo ma dai quali, però, ci separa una concezione dei sentimenti e dell’amore in cui è difficile per noi identificarci. Troppo distante e diversa. Cantarella prova a orientarci in questa mappa del cuore servendosi dei miti e della letteratura (ma anche di testimonianze scritte di altro tipo: corpi di leggi, iscrizioni, graffiti) in cui l’amore è protagonista. Al modo dei greci, per i quali, per esempio, le relazioni adulterine dell’uomo erano tollerate col sorriso dalle brave mogli al punto che Andromaca — altra metà di una delle coppie più solide della tradizione letteraria — si vanta per bocca di Euripide di aver allattato i figli illegittimi del marito, per non amareggiarlo e anzi «conquistare il suo amore»: proprio quell’Ettore con cui, sulle porte Scee alla vigilia della battaglia, aveva dato vita a uno dei quadretti di vita familiare più famosi (e commoventi) dell’antichità.
Inutile cercare di immedesimarsi: mentalità troppo lontane dalla nostra. Meglio cercare di contestualizzare e poi lasciarsi travolgere dal fascino delle testimonianze, delle storie: dèi che rapiscono ragazze (e ragazzi) come se nulla fosse (le mille conquiste di Zeus: Callisto, Europa, Metis, Semele, Io, Ganimede, Leda…), fiumi e venti che insidiano ninfe bellissime, mariti che, come Ulisse, smaniano per tornare dalle mogli ma non disdegnano di ritardare il rientro trascorrendo anni nel letto di maghe. Ma anche la forza ancora viva di sentimenti più simili ai nostri, meno difficili da condividere: la gelosia che fa impazzire Catullo mentre pensa a Lesbia, i sospiri di Sulpicia — preziosa e rara voce di poetessa donna —, i vivacissimi graffiti di Pompei («Costringimi a morire, poiché mi costringi a vivere senza di te», ma anche il meno romantico, seppure tardivamente ritroso: «Io qui, con le natiche al vento, ho fatto l’amore con la mia donna: ma scrivere queste cose è stato turpe»). E la philia — misto di eros, amicizia e rapporto tra discepolo e maestro — che univa Achille e Patroclo e gli uomini di Grecia e Roma ad altri uomini: nel 559 d. C. Giustiniano per la prima volta la bollerà come «contro natura». Cambia l’etica, e si chiude un’era.

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Evviva le lingue morte che non smettono di vivere

Paolo Di Paolo, “La Repubblica”, 7 dicembre 2018

Una ragazza è alle prese con le versioni di latino. Si sconforta: «No, non ce la faccio!», la madre la sprona, la incoraggia. La ragazza reagisce e fa la domanda delle domande: «Ora tu mi spieghi a che serve il latino». La madre azzarda una spiegazione: «Oh! Il latino è importante, eh! Il latino serve a ragionare, a costruire così… un discorso, a scrivere». Si confonde, parla della “struttura logica” che viene dal latino, scoppia a ridere: «Non mi ricordo, so che serve a qualcosa, ma non mi ricordo più a cosa, va bene?». È una scena di un film di Nanni Moretti, Mia madre. È la domanda che generazioni di studenti si sono portati dietro: a che cosa servono il greco e il latino? Forse il successo di La lingua geniale e Viva il latino allegati a Repubblica — oltre cinquantamila copie in pochi giorni — è già una risposta. Due bestseller — decine di edizioni in libreria — diventano bestseller anche nella riproposta in edicola. È il segno che le lingue cosiddette morte restano vive prima di tutto in noi, come una specie di muscolo dimenticato, o un secondo cuore. Chi ha trafficato con i paradigmi, con le declinazioni — lì per lì, magari, maledicendole — si porta dietro una strana cassetta degli attrezzi. Inutilizzabili, o almeno pare, nel quotidiano: con chi parli la lingua di Sofocle o di Seneca? Con nessuno, in effetti. Inapplicabili alle emergenze pratiche: una perifrastica non salva e non risolve. Ma quanto più te la porti dietro nella vita, quella cassetta degli attrezzi fuori tempo, tanto più si alleggerisce.
Al punto che dimentichi di averla con te. E dopo quarant’anni di assenza dai banchi di scuola, se qualcuno se ne esce con “rosa, rosae” sbianchi, ti allarmi, sospiri, metti le mani avanti: non mi ricordo niente. Non è così: di tutto resta un poco; e del greco e del latino una specie di scia, un sentimento. Sono convinto che i libri di Andrea Marcolongo e di Nicola Gardini abbiano rimesso in gioco, prima ancora che un sapere, quel sentimento. E il desiderio — in decine di migliaia di studenti, in corso e fuori corso — di alimentarlo, risvegliarlo, di non disperderlo. Un tesoro, o tesoretto che, seguitando a mandare il proprio bagliore, illumina imprevedibilmente la quotidianità, il presente.
Inciampi su una parola — e la vedi meglio, ne cogli la storia, il tempo, lo spazio.
Ma non basta. Senti risuonare, nelle frasi che dici, una musica complessa e misteriosa. Mentre provi a leggere i segni del mondo — concetti, idee, conflitti — il fascio di luce investe un dettaglio, lo rivela e insieme lo complica. E magari fa sbucare un’altra strada, sempre all’improvviso. Una grande della fisica, Fabiola Gianotti, una che ha lavorato sul bosone di Higgs, ha raccontato una volta il suo amore per le lingue “morte”: «Amavo il greco e il latino, e soprattutto la filosofia antica. Lì ho intuito che la fisica mi avrebbe permesso di aiutare in maniera pratica le domande filosofiche».
Non è questione dunque di accanimento grammaticale, il punto è la sfida che le lingue di un passato remoto — e la vastissima sapienza dell’umano che traghettano — lanciano al presente. Ars interrogandi.
Tutto qua. L’arte di non smettere di farsi domande, di tenere viva e vitale una staffetta tra moderni e antichi, a costo di ritrovarci nei panni di quelli che stanno più indietro.

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Vivere è amare e l’amicizia è poesia

Roberto Galaverni, “Corriere della Sera – La Lettura”, 2 dicembre 2018

Nell’intera raccolta della sue poesie — il cosiddetto liber — Gaio Valerio Catullo nomina Roma direttamente solo una volta. Accade nel carme 68a, uno dei vertici non solo della sua poesia ma, si può dirlo, di tutta la poesia occidentale. Il poeta si trova nella Verona natale, distrutto dal dolore per la morte del fratello, ma deve rispondere a un amico, anche lui abbattuto da una qualche sventura privata, che da Roma gli chiede l’invio di un conforto poetico. Nella sua epistola in versi, così gli scrive in risposta Catullo: «Se qui con me non ho più di tanti scritti,/ questo è perché adesso vivo a Roma. Quella è la casa,/ quella è la mia dimora. È là che se ne va via il mio tempo».
Tanto più singolare appare dunque la posizione del poeta. Se la derivazione provinciale, con il suo importante retaggio anzitutto di natura morale, non venne mai dimenticata o ripudiata, di fatto «il vero orizzonte della poesia catulliana», come ha scritto Alfonso Traina, «è Roma». Infatti, «urbanus fu veramente, in ogni senso, Catullo. Nell’Urbe realizzò pienamente l’indissolubile trinomio della sua vita: l’amore, l’amicizia, la poesia». Questo passaggio è stato ripreso da Alessandro Fo nella sua introduzione a una nuova raccolta dei carmi di Catullo — il titolo è: Le poesie — che ha tradotto, commentato e curato per Einaudi. Tanto più avvalendosi di questa eccellente edizione (l’impianto complessivo si distingue per scrupolo, competenza, equilibrio, ma anche per una sempre motivata intraprendenza), c’è da chiedersi in che modo nei carmi si manifesti l’urbanità del poeta, il suo essere appunto di Roma e insieme, reciprocamente, come la città stessa viva nei suoi versi. Si è sottolineato spesso, infatti, come questa poesia sia poco interessata ai riferimenti locali determinati, in favore di un approfondimento tutto interiore, legato all’esperienza personale in ciò che ha di più universalmente condiviso. Una poesia, dunque, tanto più assoluta, proprio perché estranea a tutto quanto non abbia riflessi sulla dimensione più intima e sulla sua condivisione con una cerchia molto ristretta di amici e interlocutori.
Sono proprio queste, del resto, le innovazioni più rivoluzionarie dei celeberrimi «poeti nuovi», i neóteroi (la definizione, in realtà diminutiva e irridente, è di Cicerone), a cominciare appunto da Catullo e dal suo fortunatissimo liber: centralità del cosiddetto «io» poetico e sua stretta vicinanza con la persona dell’autore, valorizzazione della storia individuale, della soggettività, dell’introspezione, dei sentimenti, delle relazioni private. Di contro ai grandi temi pubblici o politico-civili della storia maggiore, ai piccoli accadimenti della storia individuale viene riconosciuta un’importanza addirittura incommensurabile, visti i loro decisivi risvolti interiori (o, come potremmo dire oggi, esistenziali). Ma l’elemento davvero dirompente è che questi temi quotidiani fino a quel punto considerati futili o irrilevanti diventano tutt’uno con un investimento poetico totale, una specie di raffinatissima e altrettanto disciplinata religione condivisa dalla cerchia, che nel connubio strettissimo tra vita e poesia prevede un’elezione ch’è insieme, e del tutto consapevolmente, etica ed estetica.
Il vero patto sacro per Catullo è quello che sancisce l’amicizia. Allo stesso modo, il suo scarto dalle convenzioni e dalla morale del tempo non sta solo nel fatto che l’amatissima Lesbia sia sposata (e che il triangolo donna-amante-marito divenga un motivo della poesia), ma anche e soprattutto che il suo presupposto sia la completa «equivalenza fra vivere e amare» (Fo) o che, accanto ai mille e mille baci, venga celebrato anche l’amore come esperienza spirituale, ossia non esclusivamente sensuale e corporea. Sia per il linguaggio, sia per la tipologia del tema amoroso, il ruolo fondativo di Catullo nella tradizione occidentale viene soprattutto di qui. Poco più di tredici secoli dopo, con gli stilnovisti fiorentini accadrà qualcosa di non troppo diverso.
Esiste dunque una poetica, come esiste, all’unisono, un’amicizia nella poesia. La maggioranza dei carmi di Catullo presuppone non a caso una schiera di destinatari e uditori determinati, che non coincidono necessariamente con i personaggi di cui tratta o a cui esplicitamente si rivolge ciascun componimento. Confidenza e complicità, scambi poetici, incontri e letture comuni, il riferimento a personaggi e accadimenti quasi sempre noti: l’immediatezza calibratissima di Catullo, e così il calore, la presenza di spirito, l’affettività e l’affettuosità, ma anche la polemica, il sarcasmo, la riprovazione (è uno scrittore di epigrammi più che notevole), derivano anche da questo concreto riferimento contestuale, meglio ancora, dall’occasione contingente e viva da cui scaturisce e a cui a sua volta viene indirizzato ogni singolo componimento. È allora l’abbassamento e, in sostanza, la personalizzazione dello sguardo a farne, in un modo del tutto suo, un poeta di Roma. Ma una Roma che si rivela nella natura dei suoi abitanti, ciascuno col proprio nome, anziché nella sua concreta determinazione fisica e geografica. A Catullo non importano i luoghi, ma gli individui, cosa provano, come si comportano, cosa vogliono. La città di per sé appare semmai come un fondale che non è nemmeno necessario descrivere. In una specie di piano sequenza ante litteram, nel carme 55 il poeta attraversa alcuni dei più importanti luoghi di Roma solo per sapere che fine abbia fatto l’amico Camerio. Ma è comunque dal desiderio di conoscere la sua vicissitudine che deriva la spinta a cercarlo e a scrivere di lui. Viene in mente uno spunto di Cesare Garboli, secondo cui nelle poesie di Sandro Penna certi particolari di Roma entrano come per caso, colti di passaggio sullo sfondo della persona che s’intendeva fotografare.
La chiave del rapporto di Catullo con l’Urbs va cercata da queste parti. Il poeta si avvicina a Roma forte di un definitissimo, formidabile nucleo indifferentemente etico ed estetico (vita e poesia, come detto). L’urbanitas neoterica costituisce infatti il metro con cui, alla lettera, vengono commisurati la città e i suoi abitatori. Ed è esattamente qui che il «teatrino romano», come lo chiama Fo, messo in scena nel liber trova la propria ragione.
Soltanto a partire dagli ideali, diciamo pure dall’ideologia d’amore e d’amicizia della cerchia, e dunque nel nome di un’elezione tutta di natura interiore, si misurano volta a volta la dignità o viceversa l’indegnità dei compagni di strada o degli obbiettivi polemici. Lesbia e lo stesso poeta compresi. Ironia, equilibrio tra coinvolgimento e distacco, grazia, arguzia, giocosità, raffinatezza, saper vivere, venustà (la venustas: sotto il segno di Venere, dunque, e allora della bellezza, del fascino, del desiderio): il rovesciamento è questo, ed è tanto più significativo perché riguarda ora questa ora quella persona nella sua singolarità. Così anche l’urbanitas, il cosiddetto spirito urbano, non è più limitata a una mera contrapposizione geografica e culturale: la città di contro alla provincia o alla campagna (la rusticitas). Con Catullo il contrasto tra chi è all’altezza etico-spirituale e chi non lo è diventa invece trasversale, riguarda tutti. Non basta essere nati a Roma per essere davvero all’altezza dell’Urbe, il che significa poi del mondo. Certo, chi non vi riesce se ne vada pure in malora. «Ma a voi dian dèi e dee molti mali,/ disonori di Romolo e Remo».

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Plutarco, moralità e arguzia nelle parole degli antichi

Risultati immagini per plutarchNunzio Bianchi, “il manifesto”,  2 dicembre 2018

Classici antichi. Sessant’anni dopo le “Vite parallele”, la squisita fedeltà di Carlo Carena e di Einaudi al grande biografo frutta quest’antologia (offerta a Traiano) di “Detti memorabili di re e generali”

Chissà cosa avrebbe pensato dell’abuso di parola pubblica nel nostro tempo il vecchio Plutarco (I-II d.C.), lui che con i Detti memorabili di re e generali aveva offerto all’imperatore Traiano un’originale antologia di risposte argute e ben assestate, di frasi aguzze e rivelatrici, di motti di spirito e gustose definizioni, di facezie e pillole di saggezza, tout court di apoftegmi. E cosa avrebbe pensato degli slogan di infimo livello dei nostri politici? E dell’imbarazzante approssimazione elargita a piene mani sui social media? E, viceversa, cosa penserebbero i nostri politici se – per ipotesi assai benevola – si trovassero a leggere questi Detti memorabili?
Nella lettera di dedica all’imperatore, Plutarco motivava il senso della raccolta (trasmessoci all’interno di quella ricca e variegata enciclopedia che sono le Opere morali) richiamando l’utilità di questi detti, memorabili per quanto apportano di utile «alla conoscenza del carattere e del comportamento dei potenti, che si manifestano più chiaramente nelle loro parole che nelle azioni». Il peso specifico riconosciuto alle parole, il senso più vasto che esse racchiudono, è enorme, ben maggiore di quello delle azioni – e non occorreva internet a quel tempo per comprenderlo. E a noi, ordinari mortali, che parliamo il lessico grossolano della rete e pratichiamo la rudimentale grammatica dei social media, quale effetto fanno questi Detti memorabili? La parola pubblica, appannaggio anche di quelle ‘legioni di imbecilli’ evocate da Umberto Eco, si scontra spesso col cattivo uso che di essa vien fatto: totalmente deresponsabilizzata e sovente aggressiva, diffusa in Rete con la stessa confidenziale disinvoltura con cui è somministrata nel tinello domestico, questa parola non è priva di conseguenze.
Anche alla luce di ciò converrà tornare a leggere i Detti memorabili di re e generali, di spartani, di spartane – sentenzioso distillato di parole che Plutarco ricavava, isolandole dalle azioni alle quali si trovavano frammiste, dalle sue stesse Vite parallele – nella traduzione di Carlo Carena (Einaudi «Nue», pp. 320). Della squisita arte di tradurre di Carena non serve qui dire, se non per rilevare il proficuo colloquio sul tema che il traduttore intrattiene da qualche tempo con questo genere di letteratura: sua la versione dei Modi di dire (Adagiorum collectanea) di Erasmo (2013) e quella delle Sentenze e massime morali di François de La Rochefoucauld (2015). Per di più Carena è molto a suo agio con Plutarco, con cui intrattiene «una lunga e affettuosa consuetudine» (come ricorda l’Editore) avviata sessant’anni fa con la traduzione annotata delle Vite parallele in tre volumi per i «Millenni» einaudiani: ben oltre 2000 pagine che consegnavano all’Italia del boom economico la prima traduzione moderna e integrale delle biografie plutarchee. (Ed era edizione di pregio, con riproduzione di incisioni tratte da una stampa cinquecentesca, carte geografiche, titolo in oro e fregi al dorso, che in qualche modo segnava il ritorno di Plutarco in Italia).
Non meno pregevole l’originale commento a questi Detti memorabili in cui sono posti a confronto stralci di versioni e observationes al testo di scrittori cinque-seicenteschi ai quali è legata la prima e matura ricezione moderna del testo plutarcheo, come Erasmo (che, traducendo e commentando questi Detti, veicolò «attraverso le parole di quei grandi antichi e dell’antico autore il proprio pensiero morale e la repulsione e condanna per l’immoralità pubblica e privata del suo tempo»), il fiorentino Marcello Adriani il Giovane (cui si deve la prima seppur incompleta traduzione delle Opere morali), naturalmente Jacques Amyot (la cui versione francese degli scritti morali e filosofici plutarchei è un capolavoro assoluto di arte traduttoria) o ancora Nicolas Perrot (fecondo autore di traduzioni ‘belle ma infedeli’, secondo la definizione coniata per la sua versione di Luciano). Nelle osservazioni di questi dotti, e di altri ancora, si può seguire la trama con cui l’originale plutarcheo è venuto in dialogo con il diverso sentire e ha attraversato la cultura umanistica fino all’età moderna.
Anche come frutto più spassoso, in grado di strapparci di tanto in tanto un sorriso (sollievo, lo notava già Erasmo, per la mente soffocata dalle occupazioni), non può che giovarci la lettura di questi Detti e forse pure metterci in guardia dalle odierne e farneticanti derive. Ma ci affaticheremmo invano a cercare qualche esempio di figura politica dei nostri giorni che ammettesse, sull’esempio di Dionigi il Giovane, di aver fatto fronte a un rovescio politico grazie agli scritti di Platone e alla sua filosofia (e sarebbe invero già arduo trovare chi avesse anche solo sfogliato qualche pagina di Platone).

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Il maestro d’amore a Roma. L’esilio di Ovidio è finito

Anniversari. Duemila anni da la morte dell’autore delle Metamorfosi spedito sul Mar Nero da Augusto che mai ascoltò le sue implorazioni di perdono
Dipinti e miti alle Scuderie del Quirinale


Edoardo Sassi, “Corriere della Sera – La Lettura”, 11 novembre 2018

Amore, rapimento, abbandono, piacere, vedetta, odio: un mondo (divino) preda di passioni e desideri (tipici degli umani). Duecento opere per provare a raccontare l’universalità di un mondo e di un pensiero, quello del poeta Ovidio, in occasione del bimillenario della morte avvenuta in esilio l’anno 18 dopo Cristo. Questa la sfida della mostra allestita fino al 20 gennaio alle Scuderie del Quirinale di Roma — Ovidio. Amori, miti e altre storie — curata da Francesca Ghedini e ispirata all’opera del grande poeta.
Una mostra che idealmente comincia già nel luogo dove si trova la sede espositiva, con le statue di Castore e Polluce, i Dioscuri, al centro della piazza del Quirinale. Occhi e memorie rimandano così alla vicenda di Leda che infiammò d’amore il cuore di Giove, quel Giove che in Ovidio non è tanto il signore dei cieli, quanto piuttosto l’amante insaziabile e libertino capace di ricorrere a ogni espediente pur di possedere l’oggetto dei suoi desideri, fanciulle o efebi che siano. Giove per avere Leda si trasformerà in cigno. La donna dopo l’amplesso giacerà (anche) con il legittimo consorte. E da quel duplice connubio nasceranno loro, Castore e Polluce. Il mito di Leda e il cigno rivive anche all’interno del percorso espositivo grazie a una copia cinquecentesca di un quadro di Leonardo, uno degli esemplari selezionati per comporre questa mostra colta e sofisticata, un racconto per immagini con cui — grazie a quadri, affreschi, sculture, vasi, gemme, rilievi e codici miniati — si riflette su temi e archetipi giunti, attraverso i secoli, fino all’immaginario contemporaneo.
Dalla Venere cosiddetta Callipigia, ovvero dalle belle terga — prestito del Museo archeologico nazionale di Napoli, partner dell’esposizione — fino al tubolare al neon con cui l’americano Joseph Kosuth, classe 1945, cita direttamente i versi del poeta di Sulmona, la mostra è infatti un viaggio nell’universalità di una delle principali fonti del pensiero e dell’arte occidentale. Universalità di cui il primo a esser convinto fu Ovidio stesso: «Ho ormai compiuto un’opera — parole sue — che non potranno cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo divoratore… e il mio nome resterà: indelebile». Ma ancor più che l’ira di Giove, la mostra racconta quella di Augusto, l’imperatore impegnato in una campagna di moralizzazione dei costumi e con il quale il poeta dell’erotismo, delle Veneri frivole e fedifraghe, l’acuto osservatore della Roma contemporanea, il cantore di amori focosi, non poteva che entrare in contrasto. Da qui lo spietato esilio da cui il poeta non farà ritorno, a Tomi, sulle rive del Mar Nero, dove solo e disperato il maestro dell’Ars amatoria vivrà gli ultimi anni implorando un perdono che non arriverà mai.
E Augusto in mostra si impone con la monumentale statua in marmo che lo raffigura, Pontefice Massimo, con il capo velato, giunta dal Museo di Aquileia ed esposta in suggestiva contrapposizione con le tante sensuali figure che animano i versi del poeta, a partire da quelli delle celeberrime Metamorfosi. Storie di dèi, eroi, giovinetti e ninfe che dopo aver popolato l’immaginario antico sono giunti fino a noi grazie al tramite fondamentale dei monaci amanuensi che nel Medioevo, chiusi nei loro cenobi, trascrissero anche i versi più audaci salvandoli dall’oblio. E tra le più celebri delle Metamorfosi, quella di Ermafrodito dalla doppia natura, maschile e femminile, evocata in mostra dalla sensualissima statua (II secolo dopo Cristo, da un originale ellenistico) proveniente da Palazzo Massimo-Museo nazionale romano, oltre che da quadri di Sisto Badalocchio, Francesco Albani e Carlo Saraceni.
Tra gli autori, Benvenuto Cellini, Tintoretto, Poussin o Pompeo Batoni. E tra i soggetti ricorrenti, oltre ad Adoni, Icari, Apolli e Veneri (presente anche nella versione «Pudica» dipinta da Botticelli a fine Quattrocento) c’è, va da sé, Narciso, il bellissimo cacciatore che disdegnò l’amore di Eco e che specchiandosi nell’acqua di una fonte si invaghì di sé stesso morendo di quella passione, non potendo possedere l’oggetto del desiderio. Figura ovidiana per antonomasia, Narciso è ricordato grazie a rilievi antichi e dipinti, tra gli altri, di Domenichino e Giovanni Antonio Boltraffio. «La scelta di riparlare di Ovidio a duemila anni dalla sua scomparsa — spiega la curatrice — è stata dettata dal desiderio di comunicare frammenti di questo grande che ha segnato la cultura europea. L’auspicio è che ciascuno possa provare un’emozione, trovare uno spunto». Festeggiando così il ritorno del poeta nella sua Roma. E da vincitore.

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Ovidio. Il valore dell’eros

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L’amore come simbolo del destino instabile così augusto punì il suo essere diverso
Una mostra a Roma celebra il grande poeta che pagò con l’esilio la visione della vita espressa nelle Metamorfosi
Nicola Gardini, “Corriere della Sera”, 16 ottobre 2018

Ci sono poeti che dalla storia ricevono il dono del bifrontismo. Guardano indietro e guardano avanti, riepilogano una tradizione e ne iniziano una. A simili poeti capita di vivere in tempi di mutazioni radicali e alla loro opera, motivata dalla paura della disgregazione, di raccogliere e di contenere il più possibile, sistematizzando ed enciclopedizzando. Un caso emblematico è quello di Dante, nei primi secoli del secondo millennio dopo Cristo. Altrettanto emblematico, sulla soglia del primo, quello di Ovidio, che di Dante – guarda un po’ – è un alter ego.
Era finita dopo quasi cinque secoli la repubblica e Roma rinasceva nel principato di Augusto, riformulando istituzioni e propaganda. Ovidio reagì con un esibito disimpegno. Veniva da Sulmona, dove era nato nel 43 a. C. e dove il padre aveva progettato di avviarlo all’avvocatura. Nella capitale elevò il suo nome scrivendo d’amore, come già altri. L’amore, però, sotto la sua penna si raffinò da emozione in progetto. Perse di naturalezza, ma acquistò in autocoscienza. Gli istinti, perfino la fame di sesso, sono costruzioni; sono esercizio dell’intelligenza: ecco la lezione degli Amori, dell’Arte dell’amore, delle Lettere d’eroine.
Ovidio impersonò il libertino, l’intrigante, il dissoluto (e ancora, a torto, per molti la sua essenza si riduce a tale ruolo), senza badare alle moralizzazioni che stavano a cuore ad Augusto. Scherzava, si divertiva, divertiva, attribuiva al maschio e alla femmina uguale diritto al piacere, e intanto, dissidente suo malgrado, sfidava la legge, derideva gli stessi dei, adattava i luoghi del potere alle proiezioni del desiderio. Fu il primo Don Giovanni del mondo occidentale; bramoso, insoddisfacibile, votato a ripetere incessantemente l’impulso a possedere. Sarebbe diventato il poeta delle metamorfosi fisiche, ma la sorte del trasformarsi la scoprì e definì prima di tutto nella pratica dell’eros, perché il voglioso che parla nelle sue poesie non smette di rimodellarsi sull’oggetto voluto, sempre diverso. La voglia non è volontà; e senza volontà non hai identità. Fu una rivoluzione.
Arrivò, dunque, al grande poema, le Metamorfosi. Sembrava un salto nel buio. Di fatto, in quel cosmo trasportava la luce di precedenti invenzioni, una volta di più e tanto più stupendamente dimostrando che non esiste differenza tra corpo e psiche. Qualcosa di nuovo, senza dubbio, nacque: un intreccio di miti e personaggi che costituivano molta memoria antica e che avrebbero costituito un archivio di archetipi per secoli a venire, giù giù fino a noi; e una rappresentazione della natura che, pur continuando Lucrezio e Virgilio, metteva in scena l’universo in maniera inedita, con una capacità di osservazione che aveva del miracoloso. Ai suoi lettori e probabilmente anche a sé stesso dava a intendere che pure lui, Ovidio, finalmente era approdato all’epica, come Virgilio.
Ma che epica poteva essere un poema che della narrazione distesa faceva non un percorso provvidenziale, non il progredire della gloria romana verso un apice inviolabile, non la missione di un eroe, ma una continua esemplificazione dell’alterità? Che epica poteva essere l’esaltazione del transeunte, dell’instabile, del perituro, la distruzione di qualunque fede nell’eternità dell’impero e nell’assolutezza del romanocentrismo? Come poteva ormai Augusto non disapprovare apertamente? E infatti Augusto disapprovò e tanto apertamente che se lo tolse dai piedi una volta per tutte.
Le ragioni della cacciata rimangono incerte. Certo è che Ovidio dovette lasciare il carissimo caput mundi subito dopo aver completato le Metamorfosi. Non potremo mai capire fino in fondo lo sgomento e la disillusione che lo presero. Si ritrovò senza meriti, consapevole di aver cambiato la mente dell’umanità. Era l’8 d. C. Si smarrì a Tomi, sul mar Nero, la Costanza dell’odierna Romania, e lì morì, nel 17 d. C., nell’abbandono più umiliante. Laggiù, tra geli e minacce continue, come raccontano i Tristia e le Epistole dal Ponto, scoprì un’estrema alterità: la sua. A Tomi Ovidio comprese che ora lo straniero, l’altro, era lui: il civis Romanus. Fu l’ultimo, il più vitale dei suoi insegnamenti.

Nicola Gardini, professore di Letteratura italiana e comparata a Oxford, è autore di «Con Ovidio. La felicità di leggere un classico» (Garzanti, 2017)
Risultati immagini per mostra ovidio scuderie quirinaleEva Cantarella, Il rapporto con l’altro sesso

Con le donne Ovidio aveva un rapporto speciale, per alcuni aspetti molto diverso da quello dei suoi concittadini. Da un canto, infatti, come tutti i maschi romani, egli riteneva normale avere rapporti sessuali con altri uomini — sempre che, quantomeno teoricamente, questi non fossero uomini liberi: il maschio romano, per definizione dominatore, doveva essere il partner attivo del rapporto, il partner passivo doveva essere schiavo.
E Ovidio dichiara di subire anche il fascino maschile: a ispirare la sua poesia, scrive infatti, poteva essere tanto una donna quanto un ragazzo (Amores I, 1, 20). Sin qui, dunque, era come gli altri. Ma a differenza di questi preferiva le donne. E ce ne spiega la ragione: il piacere doveva essere reciproco, e le donne, per lui, provavano maggior piacere degli uomini, soprattutto se assecondate nei loro desideri (cosa che non manca di raccomandare caldamente ai suoi concittadini di fare). In un mondo nel quale il rapporto tra generi era fondamentalmente predatorio per lui, dunque, dell’amore dovevano godere anche le donne, e scriveva: «il piacere concesso per dovere non mi è grato/ compiacenza di donna non la voglio» (Ars amatoria II, 687-688).
Cosa addirittura impensabile all’epoca, poi, assicurava che il piacere era maggiore se l’uomo e la donna raggiungevano contemporaneamente l’orgasmo, ammonendo: «non sorpassarla, con le tue vele al vento/ e non lasciarla andare innanzi a te./ Guadagnatela insieme, quella meta: solo allora/ quando ugualmente vinti giacciono/ la donna e l’ uomo, pieno è il piacere» (Ars amatoria II, 724-728). Ma come raggiungerlo questo piacere, come sedurre? Per Ovidio l’amore era un gioco che allietava la vita, ma quel gioco era un’arte: quella di godere solo degli aspetti positivi del rapporto, eliminando le inutili sofferenze che questo spesso comportava. Risultato non facile, raggiunto grazie a una guerra spietata in cui il fine giustificava i mezzi, consentendo menzogne e simulazioni, nel corso della quale ciascuno dei combattenti usava le armi tipiche del proprio sesso. E poiché come tutte le arti anche quella di amare richiedeva un’educazione, nell’Ars amatoria (la più celebre delle sue opere) Ovidio assume il ruolo del precettore, insegnandola ai suoi concittadini (nei primi due libri dell’opera alle donne, e nel terzo agli uomini).
Insegnamenti diversi, ovviamente, a seconda dei sessi (che hanno peraltro in comune l’idea che la conquista fosse affidata all’inganno), descritti ricorrendo a metafore, tra le quali quella della caccia: come il cacciatore, chi ama deve studiare la preda, deve conoscerne i gusti e le abitudini, perché solo così potrà tendere trappole efficaci e sfruttare ogni possibile occasione. Ma attenzione, la vittoria, l’oggetto della conquista non è l’amore, è il piacere sessuale. L’allievo-amante non deve mai farsi coinvolgere sentimentalmente, se vuol continuare a reggere le redini del gioco e dopo aver vinto la prima battaglia della conquista vincere la guerra. A questo punto, ce n’è quanto basta per capire come la sua poesia (purtroppo per lui) fosse in contrasto con la politica di Augusto, in quegli anni impegnato in una grande opera di moralizzazione (peraltro destinata a fallire) contro quella che egli riteneva una generale dissolutezza causata dalla perdita dei valori familiari.
Caduto in disgrazia nell’8 d.C., Ovidio venne relegato nella lontana Tomi (oggi Costanza), sulle coste del Mar Nero, e ivi morrà, nel 17 o 18 d.C. A nulla valsero i tentativi degli amici e della moglie, rimasta a Roma, per ottenere che il bando venisse revocato. Nei Tristia, l’opera scritta negli anni dell’esilio, Ovidio scriverà che a causare la sua disgrazia erano stati un errore e un carmen. Quale fosse l’errore è cosa discussa, quale il carmen è invece evidente: è l’Ars amatoria.

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Vivere o sopravvivere? Chiedilo ai classici

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Ivano Dionigi, “La Repubblica”,  15 ottobre 2018
Perché Seneca e Lucrezio sono un antidoto al pensiero unico
Il mondo classico, caratterizzato dalla centralità della ragione e dal culto dell’equilibrio, cos’ha in comune con questo nostro mondo eccentrico, senza più un centro, e ametrico, senza più una misura?
Atene e Roma cos’hanno da dire alla nostra gloriosa Europa nel momento in cui le dure e nuove leggi della geografia e della demografia stanno soppiantando il collaudato e rassicurante codice della storia?
Le parole di Lucrezio e Seneca come possono interessare l’uomo tecnologico dei nostri giorni che, catturato e frastornato dall’immensa rete dello spazio, ha smarrito la strada del tempo?
Quel mondo classico, quell’Atene e quella Roma, quel Lucrezio e quel Seneca possono essere nostri interlocutori: non perché abbiano risolto tutti i problemi e quindi s’impongano come modelli; ma, più semplicemente, perché ci hanno preceduti nelle nostre stesse domande; perché, allergici al pensiero unico, ci hanno prospettato visioni differenti e tra loro antagoniste; perché, pur da sponde opposte, hanno sperimentato, in solitudine e in autonomia, cosa significa sopportare la verità quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio e Seneca, come Socrate prima di loro, hanno richiamato la filosofia dal cielo, l’hanno trasferita nelle città, introdotta nelle case e portata a interessarsi della vita, dei costumi, del bene e del male.
Sono interlocutori credibili e utili perché fanno il controcanto al presente, a qualunque presente, e ci proiettano nelle dimensioni profonde dell’intelligere, dell’interrogare, dell’invenire. Questi interlocutori, oltre a ricordarci come eravamo, ci dicono anche come potremmo essere.
Lucrezio e Seneca: autori necessari e dal pensiero forte non solo perché hanno segnato la storia del pensiero europeo con la curiosità della conoscenza, la radicalità della ragione, la novità della lingua; ma soprattutto perché sono simboli e paradigmi di due concezioni e tradizioni rivali del mondo. Divisi e antagonisti su tutto, sui problemi penultimi e su quelli ultimi: scegliere la politica (negotium) o l’antipolitica (otium)? Rimanere soli a riva a osservare (spectare) le tempeste della vita oppure salire a bordo (agere) senza curarsi dei compagni di viaggio?
Adottare le leggi del cosmo o le leggi dell’io, della fisica o della morale? Il finis è un «confine» da oltrepassare o da rispettare? Le Colonne d’Ercole sono una protezione o una limitazione? La lezione dei padri (notum) o la rivoluzione dei figli (novum)? Di fronte a Dio e alla morte, credere o capire?
Lucrezio e Seneca: i due hanno scritto parole durature e guadagnato quella sopravvivenza che l’uno negava e l’altro desiderava. Per secoli hanno resistito contro oblio (Lucrezio, eclissato per tutto il Medio Evo, sarà casualmente riscoperto nel 1417 da Poggio Bracciolini in un monastero non lontano da Costanza), condanne e congiure del silenzio: trascritti, tradotti, commentati, aspramente censurati o entusiasticamente elogiati.
Entrambi segni di contraddizione, o semplicemente erma bifronte, immagine dell’homo duplex. Ho trovato significativo che una parte della critica abbia riconosciuto Lucrezio in quel busto che – proveniente dalla Villa dei Papiri di Ercolano e conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli – una lunga tradizione aveva erroneamente identificato con Seneca: nello stesso volto, severo e pensoso, si è voluto vedere ora lo stoico Seneca ora l’epicureo Lucrezio. Anche i falsi storici veicolano messaggi di verità. Lucrezio e Seneca fanno ritorno ancora oggi sui banchi di scuola, nelle ricerche e negli studi sulla realtà naturale e sull’anima, nei festival di letteratura e filosofia. E fanno ritorno nella riflessione diurna e notturna di ognuno di noi, soprattutto di chi li ha frequentati tutta una vita al punto da non distinguere più se la compagnia di questi «antiqui huomini» sia più passione o professione. Ogni volta che ti schieri per l’uno ti assale il dubbio che la ragione stia con l’altro: perché entrambi hanno scritto per noi e di noi. Icone della bigamia del nostro pensiero e della nostra anima.
Inutile chiedere loro pace, perché sono naturaliter antagonisti e interroganti. Sono methórioi, uomini di frontiera, che si sono spinti «al di là del confine».
È la sfida che i cercatori del pensiero di ieri lanciano ai viaggiatori sedentari di oggi.
Per rispettare e rispecchiare la loro “diversità”, “drammaticità” e “permanenza”, era necessario andare oltre i primi incontri giovanili, oltre i filtri delle ideologie, oltre gli occhiali della critica. Pertanto è sembrato naturale farli incontrare nella forma ravvicinata e viva del dia-logo, dove la parola e la ragione (logos) dell’uno incrociano e attraversano (dia-) la parola e la ragione dell’altro. E a volte mi è sembrato di sorprenderli a parlare di questioni che ci riguardavano.
I classici nascono postumi.
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Quando i fanatici eravamo noi. I primi cristiani contro l’arte classica

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Giorgio Ieranò, “La Stampa”, 9 ottobre 2018

Orde di fanatici vestiti di nero arrivano dal deserto siriano per distruggere gli antichi monumenti di Palmira. Altri, in Egitto, assalgono i luoghi di culto di chi non abbraccia la vera fede. Bande di estremisti religiosi distruggono opere d’arte, massacrano gli infedeli, bruciano i libri profani, uccidono gli intellettuali che praticano il libero pensiero. Così Catherine Nixey, nel suo Nel nome della croce (Bollati Boringhieri, pp. 364), racconta il trionfo del cristianesimo. O meglio, come recita il sottotitolo, «la distruzione cristiana del mondo classico». I fanatici vestiti di nero non sono, infatti, i terroristi dell’Isis ma i monaci che secoli fa demolivano i templi degli idolatri. Anche a Palmira, dove gli archeologi hanno trovato la testa di una statua di Atena mutilata e sfigurata con furia iconoclasta alla fine del IV secolo, negli anni in cui l’imperatore Teodosio vietava i culti pagani. Insomma, per Nixey i cristiani di ieri erano come l’Isis di oggi, con san Giovanni Crisostomo nella parte del califfo al-Baghdadi.
Il libro di Nixey, uscito in Inghilterra nel 2017, è già un caso ed è stato tradotto in varie lingue. L’autrice, che vanta la sua formazione classica (ma tiene anche a informarci di essere figlia di un ex monaco e di una ex suora), racconta l’avvento della religione di Gesù come una storia di prevaricazione e violenza: l’ottuso radicalismo religioso dei cristiani distrugge la bellezza della cultura classica e lo splendore dell’impero romano. Il suo, più che un saggio, è un pamphlet. Leggendolo ci si trova trasportati in una dimensione quasi d’antan. Si torna alle polemiche di stampo illuministico contro la religione, ai feuilleton ottocenteschi sui crimini dei Papi o dell’Inquisizione, alla vecchia idea del Medioevo come «età oscura» (The darkening age è il titolo originale). Sullo sfondo si staglia l’ombra maestosa di Edward Gibbon che, nel suo Declino e caduta dell’impero romano, già imputava ai cristiani di avere istituito, con le loro sette rissose e fanatiche, «una nuova specie di tirannia».
Certo, come scriveva Franco Cardini nel suo Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno Editrice, 2011), il cristianesimo non si è affermato solo «con l’amore e con la persuasione». L’altra faccia del martirio cristiano è la violenza che i cristiani stessi hanno esercitato nei confronti dei pagani. Violenza a volte dimenticata o rimossa dal velo pietoso di certa apologetica. Come dice Cardini: «Nella storia di solito la voce dei vinti viene soffocata e quindi non esiste un martirologio pagano». Ma i casi di intolleranza furono molti. Nel 392, per esempio, una folla di cristiani inferociti assale il Serapeo di Alessandria d’Egitto, uno dei templi più splendidi di tutto il mondo antico, riducendolo a un cumulo di macerie e devastandone la gloriosa biblioteca. E cristiani erano anche i parabolani, le bande di fanatici che, nel 415, aizzati dal vescovo Cirillo, fanno a pezzi la filosofa neoplatonica Ipazia dopo averle cavato gli occhi.
Il libro di Nixey racconta queste e altre storie (che, si badi, sono tutte vere) per dimostrare che il primo cristianesimo era integralisticamente votato alla distruzione della civiltà classica. Per esempio, si argomenta, se abbiamo perso così tanti testi antichi è colpa della censura e dei roghi di libri perpetrati dai cristiani. Ma in realtà il «genocidio culturale» che viene adombrato non ci fu, anche perché i Padri della Chiesa inserirono i classici profani nel curriculum educativo di un buon cristiano. La stessa visione del mondo pagano è un po’ naïve: un mondo di sano edonismo e gioiosa razionalità soffocato dall’oscurantismo cristiano.
Nixey oppone, per esempio, il libertinismo di Ovidio alla cupezza del monachesimo. Eppure l’impertinente Ovidio fu spedito in esilio da Augusto, mentre il Medioevo cristiano si è poi nutrito di letture ovidiane. Anche sostenere, a maggior gloria della tolleranza pagana, che i martiri cristiani furono pochissimi è vecchio cavallo di battaglia della polemica anticristiana (lo cavalcava già Voltaire nel suo Trattato sulla tolleranza). Resta il fatto che quelli tra IV e V secolo furono anni in cui il cristianesimo si affermò anche con la violenza. Ma in un contesto che, comunque, era molto ambiguo e ricco di chiaroscuri. Come insegna anche il caso del più fedele discepolo della martire pagana Ipazia, il filosofo Sinesio di Cirene. Che morì dopo essere stato eletto vescovo di Tolemaide, senza avere mai rinunciato alla dottrina neoplatonica.

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L’eroe Ulisse raccontato dalle donne

Eva Cantarella, “Corriere della Sera”, 11 ottobre 2018

Quante sono state, nei secoli, le rivisitazioni della storia di Ulisse? Nelle chiavi più svariate, ai livelli più diversi, dalle parole dei letterati alle immagini televisive e cinematografiche, queste riletture ci hanno svelato i molteplici aspetti del carattere del re di Itaca. Versatile per definizione, possessore di qualità, come la celebre metis, che gli consentivano di superare qualunque ostacolo, Ulisse è personaggio il cui «multiforme ingegno» continua a sorprenderci, mostrando aspetti inediti della sua vita. E a darcene un’altra prova oggi è Giulio Guidorizzi, il cui racconto del famigerato ritorno a Itaca, fatto con la passione dello scrittore e il rigore dello studioso, è caratterizzato da una scelta narrativa che è, forse, il maggiore tra i tanti pregi del libro (Giulio Guidorizzi, Ulisse. L’ultimo degli eroi, Einaudi, pagine 200). La prospettiva nella quale è narrata la storia, infatti, non è quella di Ulisse: è quella delle donne che lo hanno amato. Ed è soprattutto in questa scelta che Guidorizzi dimostra la sua qualità di narratore, cambiando le prospettive a seconda dei punti di vista della voce femminile narrante, e con queste cambiando anche la storia: visto da Circe, Ulisse è un uomo «che dorme nel mio letto, nudo, indifeso, che — le fa pensare Guidorizzi — potrei in un istante trasformare in animale, o gettare una gabbia invisibile intorno alla sua mente e costringerlo a non uscire mai più da questa casa». Ma decide di non farlo: ammaliata da Ulisse lo risparmia, e al momento del commiato arriva a suggerirgli come evitare i pericoli ai quali sta andando incontro. Sono tanti gli episodi che mostrano come la possibilità di leggere molteplici significati dietro le parole omeriche renda attuale quel che fu scritto tre millenni fa, ma uno dei più belli è il dialogo con Calipso: la ninfa gli ha offerto l’eternità, Ulisse ha rifiutato, ma per lei il rifiuto è incomprensibile: «Noi (immortali) — le fa dire Guidorizzi — non sappiamo cos’è la vostra pena di vedere ogni cosa che fugge via e io vedo, Ulisse, come sei triste quando ricordi… persino nella vostra anima voi sperimentate la legge del mutamento, perché i vostri sentimenti cambiano, quando gli dei vogliono fare a un uomo il dono più bello lo sottraggono alla sensazione del tempo: ed egli non sentirà più scorrere l’acqua del fiume, sulla quale la sua vita passa come un ramoscello trasportato dalla corrente…».
Ma è nella pagina finale del libro che Guidorizzi, con un vero e proprio coup de théâtre, svela nel modo più evidente le sue qualità di romanziere. Uccisi i proci e riconquistato il potere, Ulisse finalmente fa l’amore con la moglie, alla quale racconta non solo i pericoli corsi, ma anche, onestamente, le avventure sentimentali che hanno accompagnato non pochi anni del suo viaggio. Penelope ascolta, e capisce…; ma poi Ulisse le dice che dovrà intraprendere un altro lungo viaggio, al termine del quale, le assicura, ritornerà da lei. E Penelope continua ad ascoltare… ma dopo averlo fatto prende la spada di Ulisse e con due colpi, in silenzio, distrugge la ben nota tela. Guidorizzi non commenta: ma il lettore si chiede il significato del gesto. Significa che la vecchia Penelope è morta, e la nuova è una donna radicalmente diversa? Si direbbe di sì, ma non potrebbe significare anche qualcos’altro? Che Penelope non ha la benché minima intenzione di continuare a passare la vita aspettandolo? Nel silenzio dell’autore ogni supposizione è valida: e questa, credo, verrebbe accolta con grande piacere da un buon numero di lettrici.

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