Giuliano imperatore di Utopia

Silvia Ronchey, “La Repubblica”, 29 giugno 2019

Insofferente alla dottrina della Chiesa riportò in vita il paganesimo. Ma fu soprattutto un  buon principe. Tanto da conquistare, nei secoli a venire, una serie infinita di estimatori, da Lorenzo il Magnifico a Voltaire. Un saggio lo racconta, senza ambiguità Ci sono uomini nella storia che hanno ispirato grandi amori o grandi odi. Uno di questi è l’imperatore Giuliano, dai cristiani detto l’Apostata per quella che fu, appunto, la sua apostasìa: il gran rifiuto a conformarsi alla religione cristiana, già divenuta di stato a partire da Costantino, suo esecrato zio; la ribellione al mondo politico che la dinastia costantiniana, di cui lui stesso faceva parte, aveva creato, e che a sei anni lo aveva reso testimone della carneficina del resto della sua famiglia; il suo procedere in direzione ostinata e contraria, controcorrente rispetto all’onda della storia, non solo ripristinando l’antica religione ellenica, il cosiddetto paganesimo, ma anche organizzandola in una struttura che imitava in fondo quella dei suoi avversari; e con ciò, se pure non dogmatizzandola, gravandola di molti di quelli che in seguito verranno considerati i vizi delle chiese; non solo, ma sacralizzando, quando non divinizzando già in vita, la propria figura di princeps venerandus “in perenne conversazione con gli dèi” (come scrisse il suo amico Libanio), loro vicario in terra, predestinato a salvare il mondo; e così costruendo anticipatamente il proprio mito di santo pagano, taumaturgo e profeta, assunto in cielo con un’apoteosi che lo farà “unico dio” nelle epigrafi incise sui miliari, nume tutelare dei sacelli templari, stella salvifica nelle immagini delle abitazioni popolari, come documenta ora il libro di un grande esperto della tarda antichità, Arnaldo Marcone (Giuliano. L’Imperatore filosofo e sacerdote che tentò la restaurazione del paganesimo).

Giuliano fu dunque pagano ma  non certo laico, come Diderot e soprattutto Voltaire e i loro seguaci amarono invece credere, radicando il suo mito di eroe anticlericale presso la posterità e fino alla modernità. Ma già Gibbon, con la sua sagacia, avrebbe colto il lato oscuro di questo imperatore filosofo — genìa che a partire da Adriano, primo grande sterminatore degli ebrei, e da Marco Aurelio, primo grande persecutore dei cristiani, ha prodotto alcuni tra i più ambigui esemplari di capi di stato nella storia. Certo, Giuliano esercitò anche quella tolleranza che la religione ellenica implicava in sé stessa e che la formazione filosofica avuta fin dall’adolescenza gli dettava con certezza. Non fu solo restaurator dei templi dei pagani, ma tentò di ricostruire anche quello di Gerusalemme, per restituirlo non al culto di Giove, voluto da Adriano, ma a quello degli ebrei — sebbene, forse, soprattutto in polemica coi galilei, contro i quali aveva scritto un ferreo trattato nel solco di Celso e di Porfirio. Nella pluralità del suo pantheon aveva lasciato un posto anche a Cristo — per quanto, va detto, non molto onorevole, se alla fine del suo pamphlet I cesari presentò il nazareno come un piazzista  di salvezze in saldo, uno spacciatore di perdono istantaneo proposto ai peccatori irredenti (come suo zio Costantino) al prezzo di un pentimento verbale a rito accelerato.

Ma non fu necessariamente per fomentare la discordia fra le sette cristiane che le loro varie dottrine, più o meno eterodosse, furono chiamate a convivere sotto il “giogo tranquillo” (come avrebbe scritto Louis Ménard) dei suoi meno di venti mesi di regno (dicembre 361 — giugno 363), prima che sulla via di Alessandro, trafitto a tradimento nella fallimentare campagna contro i persiani di Shapur, lasciasse andare la sua anima, come lo storico Ammiano Marcellino gli fa dire in punto di morte, “a confondersi in cielo col fuoco delle stelle”. Il libro di Marcone getta uno sguardo imparziale e scrupolosamente documentato su detti e fatti, vita, morte e trasfigurazione di questo eroe della controriforma pagana, che già il poeta cristiano Prudenzio definì “perfido nei confronti di dio anche se non perfido nei confronti del mondo”, perché fu obiettivamente un buon principe; ma che, per quanta autentica e universale simpatia possa avere suscitato nella sua vita come nel suo oltrevita, nei retori della sua corte e nei soldati delle sue legioni, nei lettori delle sue opere e negli studiosi delle sue azioni, continuamente sfugge alla presa di chi ne ricerca, come Marcone, l’identità “vera”, molto più ambigua di quanto la letteratura, antica e non, erudita e non, ha voluto mostrarci in sedici secoli di ininterrotta fioritura della sua fortuna.

Come sempre nella storia — che è storia, secondo il detto di Croce, sempre del presente — quasi tutti coloro che lungo i secoli hanno incrociato la figura e gli scritti di Giuliano (politici, filosofici, autobiografici, religiosi, poetici, giuridici, panegirici, polemici, satirici) hanno esaltato in lui gli aspetti che lo attualizzavano, che cioè lo avvicinavano alle vicende contemporanee di ciascuno. Anzitutto, la precoce e “profetica” (a suo stesso dire) intuizione dei rischi dell’ideologia cristiana e dei metodi autoritari della sua chiesa. Giuliano è stato ed è visto come un anticipatore, prima che della secolarizzazione, della reazione alle corruttele del governo ecclesiastico. Nella Firenze dei Medici l’Inno al Sole dell’”iniziato ai misteri” che se ne definiva figlio e ringraziava gli dèi “per averlo fatto nascere nella famiglia che dominava il mondo” era recitato devotamente nei circoli neopagani del nuovo platonismo, mentre Lorenzo il Magnifico, in un flagrante transfert tra sé e quel princeps, ne leggeva la politica religiosa come lotta all’avidità della chiesa di ogni tempo.

All’epoca del grande duello tra gli intellettuali riformati e il papato di Roma, nello scenario delle guerre di religione, la riscoperta e l’esaltazione di Giuliano ha una base filologica nelle prime edizioni ugonotte della sua opera e un’attualizzazione storico-politica nelle riflessioni di Jean Bodin e dello stesso Montaigne, che negli Essais dedicò a Giuliano il capitolo “De la liberté de conscience” e lo amò quasi senza riserve.

Attraverso il libertinaggio erudito degli ecclesiastici seicenteschi, gesuiti e giansenisti, e poi, come si è visto, attraverso il secolo dei Lumi, non solo nell’idealizzazione di Voltaire ma anche in Shaftesbury e Locke, il moto retrogrado dell’astro di Giuliano, contromano alla storia, affascinò l’Ottocento cattolico, da Chateaubriand ad Alfred de Vigny, che si spinse a dire: “Se la metempsicosi esiste, sono stato quell’uomo”. E si prolungò in una galleria di riattualizzazioni che lo vedranno rivivere nel neopaganesimo di Ménard, Nerval, Leconte de  Lisle, fino al quasi inosservato Imperatore e Galileo di Ibsen e al bestseller simbolista russo di Merežkovskij, fino al Giuliano novecentesco di Gore Vidal. Nel raccontare  l’erudito e trasgressivo ultimo discendente “della famiglia che dominava il mondo”, hippy e racé, dinoccolato e nervoso (“il collo sempre in movimento, le spalle sobbalzanti, gli occhi dallo sguardo esaltato, l’andatura incerta, il naso insolente”, nella malevola descrizione di Gregorio, futuro vescovo di Nazianzo), con la sua barba lunga e il suo amore per Parigi (“la mia cara Lutezia”), per la birra e per il campus universitario di Atene dalle tegole rosse, nel 1962 Vidal fustigò il sussiego della middle-class radical-chic tardoantica, convertita al nuovo credo un po’ per moda e un po’ per arrivismo, e tratteggiò in Gregorio, Basilio e Macrina, i futuri santi cappàdoci, capziosi compagni di studio di Giuliano, un precoce, profetico ritratto dei giovani borghesi che avrebbero occupato i banchi delle università europee a partire dal maggio di sei anni dopo.

“Udite popoli! Si è spento il Tiranno, il Drago, l’Apostata, il Grande Intelletto, l’Assiro, il Comune Nemico”, esultò Gregorio di Nazianzo quando Giuliano si spense, a trentadue anni, come una meteora. Suscitò grande amore e grande odio, in entrambi i casi a ragione. Fu rivoluzionario e reazionario, si ribellò a un’ideologia pervasiva che regalava illusioni ma si trovò a sostituirla con un’altra quasi ugualmente affabulatoria. E poiché questo avviene quasi regolarmente, nella storia, a chi coltiva l’inestinguibile utopia di promuovere la “libertà di coscienza” e liberare dall’oppio i popoli, Giuliano è doppiamente un eroe: per il suo coraggio, e per la sua sconfitta. Non quella subita dai persiani, ma quella inflitta dalla resa alla natura degli esseri umani, alla loro necessità di illusione e di plagio.

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Virgilio. Il grande cantore dell’emigrazione

Nicola Gardini, “Domenica – Il Sole 24 ore”, 23 giugno 2019

L’autore dell’«Eneide» è stato non solo colui che ha rappresentato le fatiche dei profughi nelle più sfumate variazioni, ma colui che più di tutti gli antichi ha contribuito a costruire un’idea di Mediterraneo

La rocca di Troia, al termine di una guerra decennale, è finalmente presa d’assalto dai Greci ed Enea, resa impossibile qualunque resistenza per la morte dei più valorosi tra i troiani, riesce a fuggire con il padre, il figlio, una folla di concittadini – uomini e donne di varie età – e gli dei della casa. Questi sbandati saranno i fondatori di Roma. Ma per il momento hanno solo il sogno di mettersi in salvo. Il viaggio per mare li porta dalle coste dell’Asia minore alle coste italiche attraverso numerose tappe, disseminate per il Mediterraneo: miraggi di arrivo, soste temporanee, falsi approdi, naufragi, lutti continui.

La traversata assomiglia, se guardiamo la carta geografica, a un’onda sinusoidale, che va da destra a sinistra, ovvero da est a ovest. Comincia da Troia, sale leggermente verso la Tracia, precipita verso Creta, risale verso il tacco d’Italia, toccando Azio e Butroto, città dell’Epiro, ridiscende verso la Sicilia e, circumnavigandola da sud, rimonta fino a Drepano e da lì piega a sud verso Cartagine. A questa segue una seconda traversata, che riporta i profughi in Sicilia e da lì li spinge fino a Cuma e ai porti del Lazio. Onde, venti, coste, spiagge, rive, porti, rocce, scogli, spume, sabbie; e remi, vele, prore, poppe, flotte, scafi… Di tutte queste sineddochi si costruisce il viaggio. Il mare ha molti nomi, nessuno proprio: altum, aequor, mare, sal, gurges, pelagus, pontus etc. Gli aggettivi che lo qualificano rimandano a una vastità disorientante, sconfinata e aggressiva. Ai tempi di Virgilio il Mediterraneo si chiama variamente nostrum mare (più di rado mare nostrum), attestato per la prima volta in Giulio Cesare, mare internum, mare magnum. Mare mediterraneum compare assai più tardi, in Solino (III secolo) e in Isidoro (VI-VII secolo). Si badi: mare nostrum non ha valenza imperialistica, come quando ricompare nella propaganda fascista. Indica semplicemente il mare vicino e conosciuto, contrapposto all’Oceano, estraneo e insondabile.

Didone, la regina di Cartagine, chiama i viaggi di Enea “errores”, “errabondaggi”. Error ed errare per Virgilio indicano non semplicemente il percorso degli smarriti. Error, certo, è anche lo smarrimento, sia fisico sia mentale. Nell’immaginazione virgiliana, però, indica anche il viaggio inevitabile; sta nella matematica delle leggi universali. Poco prima che Didone alluda agli “errores” di Enea (I,755) sentiamo Iopa, l’aedo di corte, comporre un canto astronomico, dove entrano anche gli “errores” dei corpi celesti. Il viaggio di Enea si iscrive così, con tutta la sua dolorosa condizione, in un ordine cosmico. Errare non è dell’uomo e basta, non è casuale e basta: errare tutto deve; cercare faticosamente la propria collocazione nell’universo. Errans è definita la stessa Didone (IV, 211). Il suo nome, nome fenicio, secondo un certo etimo significherebbe proprio questo.

 Il viaggio mediterraneo degli Eneadi è un viaggio di ricerca e di perdita, sebbene debba concludersi con l’approdo definitivo. È più di una traversata geografica; è un’iniziazione al male e all’inospitalità degli uomini e degli dei, di cui si susseguono esempi indimenticabili: la violenza dei Traci, la peste di Creta, le sozze Arpie, i Ciclopi, Scilla e Cariddi.

A Cartagine, dove approdano per una tempesta, Enea e la sua gente si illudono di aver trovato una casa. La regina Didone li accoglie generosamente. Si innamora pure di Enea e lo vuole al suo fianco. Ed Enea la ricambia e per qualche tempo acconsente a restarle vicino. Anzi, sembrerebbe ben contento di protrarre il soggiorno indefinitamente se gli dei non avessero in mente altro per lui. A Cartagine tutti i nodi vengono al pettine: la fuga dei Troiani non è solo un viaggio di salvezza, ma un viaggio di fondazione. Hanno una missione da compiere, come sanno fin dal primo momento: riportare in vita Troia e renderla ancora più grande e potente. E questo non si può fare ovunque. I fati impongono che si faccia nel Lazio.

La partenza di Enea induce Didone al suicidio. La morte volontaria della regina aggiunge dramma al racconto epico, innestando la tragedia nel tronco della tradizione omerica. È l’apporto più originale di Virgilio alla storia del genere epico. Serve a parlare d’amore ma anche a fornire una ragione per la futura inimicizia tra Roma e Cartagine. Tolte le ragioni narrative e ideologiche che giustificano l’episodio, e tolta anche la complessità emotiva che più di altre morti riesce a orchestrare, la morte di Didone è uno dei vari sacrifici che Enea deve compiere al dio dell’erranza, anzi allo stesso viaggio per mare. Il mare è il grande nemico di Didone. Anche il funerale di Didone appartiene alla scena del mare. Enea, infatti, vede la pira del suo funerale. Così lei stessa ha deciso che dovesse accadere.

Si torna in Sicilia, dove Enea è già stato un anno prima. L’Italia promessa è prossima, manca poco al compimento del viaggio, e Giunone, la dea nemica, lo paventa. Sapendo che la fondazione di Roma porterà alla distruzione dell’amata Cartagine, tenta di ostacolare i disegni del fato con uno stratagemma: istigando le donne troiane a incendiare le navi. Non era difficile persuaderle a tanto, essendo molte di loro sfinite dagli errabondaggi. Virgilio le definisce: “fessas aequore matres”, “le madri stanche di mare” (V, 715), condensando in una formula potentissima lo strazio dell’emigrazione; lo “sconforto da largo”. A Enea, della folla iniziale, restano gli uomini più forti. Al decimo giorno il commiato, tristissimo, sulla spiaggia: luogo liminale, linea del destino. Di quante spiagge si compone l’Eneide, che si avvicinano e si allontano, buone per una sosta rinfrancante o fatte per essere abbandonate subito! E anche chi non voleva più partire, ora vorrebbe riprendere la via delle onde, non sapendo sostenere la pena del distacco.

Comincia l’ultima avventura. Ma interviene un nuovo dramma. È una delle notti memorabili dell’Eneide. Il cielo è sereno, i marinai dormono. Solo Palinuro, il pilota, veglia, dedicato alla sua importante mansione. Quand’ecco che dal cielo scende il dio del Sonno. Preso l’aspetto di un amico, lo esorta a riposare, lasciando che la nave proceda da sola. Palinuro non si lascia convincere; lui conosce bene le insidie del buon tempo, non si fida di quel “mostro”. Proprio così chiama il mare, ed è probabile che il sostantivo sia dettato dall’idea di ambivalenza o ibridità che il pensiero antico tende ad associare all’idea di monstrum. Infatti, quel che ora appare placido può ben essere che nasconda un secondo aspetto contrario, violento e crudele. Il dio, spazientito dall’ostinazione di Palinuro, abbandona le chiacchiere e gli scuote sulle tempie un ramo soporifero. E Palinuro crolla addormentato ma non lascia la presa e, precipitando in mare, si porta via un pezzo della poppa e tutto il timone. Difficile non rinominare, con Palinuro, quel Mare nostrum che ancora qualcuno ha voglia di utilizzare come slogan Mare monstrum. Lo ritroveremo, Palinuro, nell’oltretomba, tra le anime degli insepolti.

Virgilio è stato non solo il primo grande poeta dell’emigrazione, colui che ne ha rappresentato le fatiche nelle più sfumate variazioni, ma colui che più di tutti gli antichi ha contribuito a costruire un’idea di Mediterraneo. Il viaggio fatale di Enea ha fatto di tanti luoghi sparsi un’unità, uno spazio continuo, un teatro. E questo teatro non è solo spazio geografico: ma è sguardo fisso su un’alterità che sempre ci sta davanti, che guardiamo e che ci guarda, estesa tanto fuori quanto dentro a ognuno: perché è a un tempo coscienza dell’alterità ed essenza dell’alterità. Virgilio ci ha insegnato che il Mediterraneo è la Storia, fatta di poteri insuperabili, di guerra, di dolore, e di uomini e donne cercano un senso e una necessità per le loro azioni. L’esilio di Enea è l’esilio di tutti, perché tutti abbiamo bisogno di accoglienza.

Questo articolo è tratto dalla presentazione che Nicola Gardini terrà al Teatro Romano di Fiesole giovedì 27 giugno alle ore 21: «Eneide un racconto mediterraneo – Viva il latino Viva l’Eneide». L’iniziativa è prodotta dal Teatro Pubblico Ligure, e presentata all’interno di Fiesolana Festival.

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Senza paradiso, la morte è un inferno

Hermes psicopompo, Anfipoli, Grecia

Giorgio Ieranò, “Tuttolibri”, 22 giugno 20193

Dal supplizio di Tantalo, alle fatiche di Sisifo, ai festini di Achille in compagnia di Elena. Un saggio ricostruisce attraverso miti e credenze la visione dei greci sull’oltretomba

Ulisse varca le correnti di Oceano per raggiungere il regno dei morti. Deve evocare l’ombra dell’indovino Tiresia per avere notizie sul futuro. Compiuta la missione, l’eroe vagabondo s’intrattiene con le anime dell’oltretomba. Eroi ed eroine sfilano davanti ai suoi occhi. Qualcuno gli parla, come Achille, che smentisce le illusioni sulla sorte gloriosa di chi è morto in battaglia: «Vorrei essere il servo di un padrone povero piuttosto che regnare su tutte le ombre dei morti». Poi a Ulisse si presenta lo spettacolo strano di tre figure umane sottoposte a bizzarre torture. Vede il gigante Tizio, sdraiato per terra: gli avvoltoi mangiano in continuazione il suo fegato senza che lui possa difendersi. Poi appare il re Tantalo: tormentato dalla sete, è immerso in uno stagno ma, non appena cerca di bere, l’acqua scompare. Più in là c’è l’eroe Sisifo: spinge un macigno sulla vetta di una collina ma, raggiunta la vetta, il masso rotola giù e deve ricominciare da capo la sua immane fatica.

Questi tormenti, descritti da Omero nell’Odissea e poi diventati proverbiali (il supplizio di Tantalo, la fatica di Sisifo), sono il fulcro del libro che Doralice Fabiano* dedica alle immagini greche dell’Aldilà. Il saggio, uscito nella collana del benemerito «Centro di antropologia del mondo antico» fondato da Maurizio Bettini, s’intitola Senza Paradiso. Perché l’oltretomba greco non è un luogo in cui si dispensano premi per chi si è ben condotto nella vita terrena. Non c’è un dio che garantisca un’eterna beatitudine o la compagnia di 72 vergini a chi ha vissuto da uomo giusto e pio. L’Aldilà greco, che fa la sua prima comparsa letteraria appunto nell’Odissea, è un triste porto delle nebbie, popolato da fantasmi senza vigore. Dell’uomo resta solo un’ombra, un doppio volatile, che Omero chiama psyche: parola che in origine è strettamente legata all’Oltretomba e solo più tardi designerà anche l’anima dei viventi.

Ma, in realtà, come ben illustra Fabiano, dovremmo parlare di diversi Aldilà. Non c’è, infatti, solo l’Ade visitato da Ulisse, dove le anime scendono stridendo come pipistrelli dopo avere varcato le Porte del Sole e sfiorato il Paese dei Sogni: un luogo sotterraneo e cupo, spazio di paludi melmose e di fiumi vorticosi. Ancora più giù, nelle profondità della terra, c’è il Tartaro, dove Zeus ha rinchiuso i Titani che si erano ribellati al suo potere: come scrive Esiodo, «un’incudine di bronzo, cadendo dalla terra per nove notti e nove giorni, arriverebbe al Tartaro il decimo giorno». A volte, poi, l’Aldilà ha la forma di un’isola. C’è l’Isola dei Beati, favolosa dimora di eroi su cui gli antichi hanno spesso fantasticato. Oppure l’Isola Bianca, dove Achille trascorrerebbe l’eternità in un perenne festino, avendo accanto a sé come sposa la donna più bella del mondo, Elena.

Definire l’Aldilà è difficile per ogni religione (si pensi agli infiniti dibattiti sull’esistenza del limbo o sull’esatta natura dell’inferno cristiano). Ma lo è ancora di più per i greci, che non avevano un libro sacro, e che, ogni volta, affidavano il racconto sia del mondo sia dell’oltremondo alla fluidità del mythos. L’Aldilà greco resta sempre plurale e contraddittorio. Anche se, in tutte le sue diverse forme, conserva, come ben spiega Fabiano, alcune caratteristiche irriducibili. E’ sempre un luogo remoto, separato e chiuso. E, mentre cristiani e musulmani si sono immaginati inferni in cui ardono fiamme eterne, l’Oltretomba greco è invece calato in una dimensione acquatica. Ci sono i laghi e le paludi dell’Ade sotterraneo, con quei fiumi i cui nomi risuonano infinite volte nelle opere dei poeti: Acheronte, Stige, Flegetonte, Lete. E ci sono le acque del mare che fanno cerchio intorno alle isole beate. Per andare nell’Aldilà bisogna sempre imbarcarsi. Gli stessi abissi del mare, soffocanti e oscuri, sono spesso per i greci immagine del regno dei morti.

Ma, in questo mondo così desolato, qual è il ruolo di quelle tre enigmatiche vittime di supplizi (Tizio, Tantalo, Sisifo) che Ulisse vede nell’Ade? Certo, sono tre peccatori. Scontano la pena per una trasgressione, anche se spesso le ragioni delle loro punizioni non sono chiare e sono descritte in modo contraddittorio nei miti antichi. Ma, con un’analisi molto fine, Fabiano mostra che la loro immagine non rimanda innanzitutto a una dialettica teologica tra colpe terrene e punizioni ultraterrene. Condannati a ripetere in eterno, e invano, le stesse azioni, i tre dannati rappresentano piuttosto la circolarità sinistra dell’Ade, la dimensione sottratta allo scorrere del divenire in cui abitano i morti. E, nell’Odissea, essi incarnano il pericolo che Ulisse stesso sta correndo: quello di essere sottratto alla storia degli uomini, di finire risucchiato nell’imbuto di un mondo senza tempo, come l’insidiosa eternità promessa da Calipso, la Nasconditrice. Solo il cantore Orfeo, racconta Ovidio nelle Metamorfosi, riesce a fermare per un attimo l’ingranaggio della morte e il suo invariabile succedersi degli stessi supplizi. Quando la sua musica risuona nell’Ade, dove è sceso per cercare Euridice, anche il masso di Sisifo e gli avvoltoi di Tizio restano immobili, presi dall’incanto. Ma si sa com’è andata a finire. Euridice è ancora laggiù. E, accanto a lei, Tantalo continua invano a cercare di placare la sua sete.

*Ricercatrice in Storia delle religioni all’Università di Ginevra Doralice Fabiano è autrice di numerosi contributi su religione e mitologia greca; ha curato con Philippe Borgeaud «Perception et construction du divin dans l’Antiquité»

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Saremo sempre schiavi dei miti

Alberto Manguel, “La Repubblica”, 12 giugno 2019
Possiamo anche ignorarli, ma i classici pervadono la nostra vita quotidiana. Perché ci raccontano ancora
Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia alimentano ancora la nostra vita quotidiana. Nei modi di dire (“tallone d’Achille”), nella musica pop (Venus degli Shocking Blue), nei titoli dei giornali (“L’Odissea della Nato”), negli epiteti rivolti ai personaggi famosi (“l’Adone della moda”), nel gergo psicologico o politico («essere narcisisti», «affrontare una fatica di Ercole»), negli eufemismi (“il regno di Poseidone”), nei toponimi (“Champs Elysées”), in astronomia (i nomi dei corpi celesti), nelle insegne dei negozi e nei marchi (“Hotel Mercure”): in tutti questi campi la mitologia contraddistingue il modo in cui nominiamo il mondo. Forse non sappiamo esattamente chi sia Medusa, ma comprendiamo l’espressione francese être medusé. Può sfuggirci la trama esatta della tragedia di Edipo, ma nel “complesso di Edipo” coniato da Freud riscontriamo una precisa descrizione del figlio mammone della vicina di casa. Possiamo ignorare chi fossero i Titani e le loro imprese, ma siamo concordi nel pensare che una nave battezzata Titanic dovesse essere gigantesca. In qualche modo, i miti greci restano presenti nella nostra lingua e nel pensiero anche oggi, nonostante l’incessante perdita di prestigio dell’atto intellettuale. Le nostre scuole possono non richiedere più uno studio del mondo antico, ma l’immaginario collettivo rifiuta di rinunciare alla presenza di ciò che la nostra fantasia ancestrale ha immaginato per noi. Come società possiamo anche aver deciso di inseguire il benessere materiale e il profitto economico sopra ogni altra cosa, di fare del linguaggio univoco della propaganda una virtù, e di dar più valore all’istantaneità dell’informazione rispetto a ciò che richiede riflessione prolungata, ma immediatamente al di fuori delle mura che abbiamo eretto per difenderci dalla complessità e dall’ambiguità, antiche storie di amore e vendetta, di nascite straordinarie e terribili morti, di metamorfosi e fondazioni, di maledizioni e ricerche continuano a ossessionarci.
I classici del mondo antico greco e romano (tra gli altri) ci hanno donato non solo una raccolta di racconti ben conosciuti, originati da remote fantasie poetiche, il complesso intreccio delle imprese di dei ed eroi che nutre l’immaginario collettivo. Né si tratta di una semplicistica traduzione delle prime esperienze degli eventi naturali compiute dall’umanità. L’insieme dei classici è diventato un tentativo coerente di riprodurre, attraverso una logica poetica, l’osservazione di una corrispondenza tra gli eventi naturali e quelli della società in cui viviamo, un poderoso sistema di pensiero, una sapienza che Giambattista Vico ha definito «non ragionata ed astratta qual è questa degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini». Il pensiero classico è una forma di pensiero sociale. Secondo Robert Graves, prima delle invasioni elleniche agli albori del secondo millennio avanti Cristo, l’Europa non aveva molteplici divinità, ma adorava un’immortale e onnipotente Grande Dea comune, che sovrintendeva al cambio delle stagioni, alla crescita delle messi e al miracolo della nascita. Le divinità maschili importate dagli invasori vennero via via ammesse nel regno dell’unica dea femminile e, attraverso varie fasi, si moltiplicarono e trasformarono nella variegata comunità di dei e dee che finirono per prendere dimora sul Monte Olimpo. Iniziando a narrare le loro storie nel IX secolo a.C., Omero presentò ai greci (e a tutte le generazioni a venire) una versione poetica del risultato di quelle lunghe relazioni che derivava da una visione “europea” del mondo, e contribuì a sua volta a definirla. E questa, nel suo senso più profondo (anche se gli antropologi odierni rifiutano questa idea), è universale. Il mito di Antigone serve a dar ragione della tragedia della guerra non solo nell’antica Grecia, ma anche nella Francia occupata, in Iraq, in Afghanistan e nell’ex Jugoslavia, grazie alla rappresentazione delle sue svariate versioni, da Sofocle a Hölderlin, a Cocteau ad Anouilh. Il mito di Ulisse ci parla di tutti i nostri viaggi, dalla ricerca di una casa al cammino infinito dell’esule – da Omero al Troilo e Cressida di Shakespeare, al celebre sonetto di Du Bellay, a Omeros di Derek Walcott fino, soprattutto, all’Ulisse di Joyce – ma anche del bisogno di cercare nuove imprese, nel mito reinventato da Dante e ripreso da Tennyson e Nikos Kazantzakis. Il mito della famiglia degli Atridi pervade il teatro di Atene con la sua summa del nostro destino umano e riecheggia senza fine quando si leggono le diverse versioni di Ifigenia di Goethe, Il lutto si addice ad Elettra di Eugene O’Neill, Le mosche di Sartre, Cassandra di Christa Wolf e La riunione di famiglia di T.S. Eliot. Raymond Queneau ha affermato, nella prefazione a Bouvard e Pécuchet che «ogni capolavoro letterario è un’Iliade oppure un’Odissea». Ogni cultura e ogni era dona ai racconti classici una particolare importanza o valore, li deride o li sublima, li disseziona o li ricostruisce. Anche quando una cultura volta loro le spalle, essi rifiutano di sparire e aleggiano sull’immaginario del subconscio con le loro narrazioni implacabili.
 Alberto Manguel. All rights reserved. Traduzione di Giovanni Garbellini
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Tutte le morti di Alessandro Magno

Francesco Maria Galassi, “Corriere della Sera – La Lettura”, 10 febbraio 2019

La morte di Alessandro Magno, avvenuta nel giugno del 323 a.C. a Babilonia, rappresenta da 2.342 anni il più grande mistero medico della storia. La sola idea che un condottiero capace, così giovane, di piegare l’antico ed acerrimo nemico dell’Ellade, l’Impero persiano, in pochi anni, estendendo i confini del mondo greco all’Egitto e all’India, potesse spegnersi così repentinamente, il solo pensiero che una storia così travolgente potesse interrompersi proprio nel momento in cui le armate macedoni stavano per invadere — e scoprire — l’Arabia, è stata assai difficile da accettare per generazioni di appassionati di storia antica. Questa mancata accettazione di un fenomeno naturale, la morte, insieme alla miriade di versioni contrastanti, spesso di dubbia veridicità, degli ultimi giorni di vita del condottiero, è all’origine della lunga lista di interpretazioni sulla fine di Alessandro.
Quot capita, tot sententiae, avrebbero detto gli antichi… noi parafrasiamo «quanti gli esperti, altrettanti i pareri». E di pareri ne sono stati formulati davvero tanti, raggruppabili in due macro-aree, quella a cura degli storici e quella prodotta dai medici appassionati di storia. La prima schiera si è sostanzialmente attestata su due teorie: l’avvelenamento (teoria facilmente confutabile e più volte confutata, ma antica e ciclicamente riproposta) e la malaria, malattia infettiva oggi di fatto scomparsa alle nostre latitudini, ma un tempo flagello del mondo mediterraneo. La seconda schiera, anche grazie al superiore grado di approfondimento delle scienze biomediche, è stata quella più prolifica nel produrre nuove interpretazioni sulla morte di Alessandro, tra cui l’intossicazione acuta da alcol, l’epatopatia alcolica, una depressione seguita da immunodepressione, dissecazione post-traumatica della carotide interna, sindrome di Boerhaave, encefalite causata dal virus del Nilo occidentale, leucemia, ecc. In Italia, la teoria che ha avuto più successo, anche in conseguenza dall’ampio spazio datole dal celebre romanziere Valerio Massimo Manfredi nel suo saggio La tomba di Alessandro, è quella che vuole il re vittima di una pancreatite acuta necrotizzante, una infiammazione devastante del pancreas, teoria proposta per la prima volta da Sbarounis negli anni Novanta. Non si può negare che alcune fonti antiche, quali Giustino e Diodoro Siculo, menzionino un dolore improvviso, quasi venisse trafitto da un giavellotto, avvertito da Alessandro (evento che precede l’inizio del suo declino fisico). La diagnosi di pancreatite acuta necessiterebbe, però, anche di altri sintomi, tra cui il vomito e la dolorabilità addominale, mai citati nelle fonti antiche.
L’ultima ipotesi è quella della dottoressa neozelandese Katherine Hall, che propone una malattia neurologica autoimmune, la sindrome di Guillain-Barré, quale spiegazione del decesso di Alessandro, che addirittura sarebbe stato considerato morto, pur essendo ancora vivo. Da qui è derivata e si è diffusa in maniera virale la versione vulgata, ancora più fantasiosa, secondo cui «Alessandro fu sepolto vivo». Giova ricordare che il cadavere del Macedone non fu mai sepolto, bensì venne imbalsamato. Tolomeo, un tempo generale di Alessandro e ormai padrone dell’Egitto, non perse tempo e si impossessò del feretro che trasportava le spoglie del suo antico signore: la mummia di Alessandro venne trasportata nella terra dei Faraoni. Per secoli la mummia si trovò ad Alessandria d’Egitto, città fondata da Alessandro stesso, e fu oggetto di visite celebri, forse anche di quella di Giulio Cesare, certamente da parte di Augusto che, piegandosi su di essa, finì per fratturarne accidentalmente il naso, per concludere con l’intervento dell’imperatore romano Caligola, che fece rimuovere la corazza del condottiero per possederla egli stesso.
Sul finire dell’antichità classica, in seguito alle numerose devastazioni della città di Alessandria, si è perso traccia sia della tomba che della mummia di Alessandro. Questo solo elemento — l’assenza del corpo — limita fortemente la nostra capacità di effettuare una diagnosi retrospettiva accurata, determinando una volta per tutte la causa mortis. Rimangono le già citate fonti, successive peraltro all’epoca in cui si svolsero i fatti, che richiedono grande cautela interpretativa. Formulare nuove ipotesi sulle cause di morte dei grandi del passato è senz’altro legittimo e lo studio della Hall presenta elementi di grande interesse, quali l’effettiva capacità degli antichi di certificare il decesso di un individuo sulla base dei parametri fisiologici (circolazione, respirazione).
Questo genere di studi, tuttavia, per poter rivendicare credibilità in seno alla ricerca, dovrebbe seguire le linee guida proposte dalla Paleopathology Association o, comunque, sforzarsi di raccordare le interessanti speculazioni mediche con la storia della malattia analizzata e con il contesto storico e culturale in cui questa diagnosi è formulata. Lo studio della Hall, per esempio, omette di analizzare filologicamente nelle lingue originali (greco e latino) i passi chiave portati a supporto della propria tesi, non fornisce argomentazioni sufficienti a confutare teorie proposte in precedenza, non considera il fatto che non c’è prova dell’esistenza della sindrome di Guillain-Barré nel IV secolo a.C. (venne descritta scientificamente solo nel 1916), come pure manca l’evidenza (e le fonti letterarie comunque non basterebbero a fornirci questo dato) che Alessandro avesse sviluppato un’infezione da Campylobacter pylori o altri patogeni, a cui sarebbe seguita una risposta del sistema immunitario capace di aggredire paradossalmente il corpo del Macedone. Infine, il dato più contestabile: la probabilità della diagnosi asserita sulla base della attuale epidemiologia della sindrome nell’Iraq contemporaneo!
Attenendoci ai dati ricavati dalle fonti antiche, analizzati attraverso le lenti della filologia e della medicina moderna, le due diagnosi più probabili e realistiche nel caso di Alessandro restano la malaria terzana maligna e il tifo addominale, tesi quest’ultima sostenuta da Ernesto Damiani nel suo saggio meticoloso La piccola morte di Alessandro il Grande (Padova, 2012).
Il caso è aperto, forse lo sarà per l’eternità, ma il fatto che non possa essere messa la parola fine al mistero non significa che qualsiasi diagnosi possa essere formulata in barba al rigore logico e ai dati a nostra disposizione. Il dibattito andrà avanti ancora per molti anni. A vincere sarà forse il diagnosta più preciso oppure quello più spettacolare? Alessandro stesso, in punto di morte, a chi gli domandava a chi avrebbe lasciato il suo regno pare abbia risposto: «Al più forte». Così forse sarà anche nell’agone intorno alle cause del suo decesso.

Valerio Massimo Manfredi, La persistenza del mito

L’ardore di Achille, la mente di Ulisse
E la terra ammutolì al suo cospetto

La mitologia del re macedone nasce quando il suo corpo è ancora caldo: presi da liti furibonde fra chi vuole mantenere l’unità del suo impero fino a che nasca un figlio maschio dalla sua sposa Rossane e chi vuole dividerlo in vari regni, i suoi generali dimenticano che il suo corpo giace da parecchi giorni abbandonato nel palazzo reale di Babilonia, nel colmo della calura dell’estate mesopotamica. Quando finalmente vengono inviati gli imbalsamatori a prendersi cura della salma di Alessandro, invece di un cadavere in avanzato stato di putrefazione trovano un corpo intatto che emana un profumo celestiale tanto che si rifiutano di toccarlo temendo di profanare il corpo di un dio. Nello stesso tempo gli agiografi del re macedone avevano creato la notizia giunta fino a noi che al suo arrivo a Babilonia Alessandro aveva trovato ambasciate da tutto il mondo (Roma compresa!) per riconoscerlo come sovrano universale.
Già si era diffusa la favola che Alessandro non era figlio di Filippo II ma di Zeus Amon che aveva posseduto sua madre Olimpiade sotto le sembianze di un serpente. Ma il mito nacque anche dallo stesso Alessandro: la sua morte prematura faceva immaginare cosa avrebbe fatto se ne avesse avuto il tempo, l’incredibile coraggio che gli fece guidare la carica di Gaugamela in sella a Bucefalo quando tutto ormai sembrava perduto, l’apparente invulnerabilità che egli rese autentica mostrando il torso nudo tempestato di cicatrici ai suoi soldati in rivolta; il suo sguardo ardente, la vitalità senza limiti che lo faceva riapparire sui campi di battaglia quando ormai tutti lo credevano morto, la possanza guerriera di Achille e la mente di Odisseo, il furore selvaggio del guerriero arcaico e la mente riflessiva del filosofo, l’eloquenza travolgente, la sua iconografia affidata al genio plastico di Lisippo e a quello pittorico di Apelle e a nessun altro.
Non fu l’immensità dei territori conquistati a farlo grande, ma la grandezza dei suoi pensieri e dei suoi sogni. La capacità di fondere insieme mondi che neppure sapevano l’esistenza gli uni degli altri e amalgamarli come in un crogiolo per crearne un altro nuovo e diverso. Fu quel mondo a costruire la più grande nave che avesse solcato i mari, la più grande statua mai innalzata, la più grande biblioteca, la torre del Faro il cui raggio era visibile da quaranta chilometri. Per questo ancora oggi continuiamo a cercare il suo corpo e la sua tomba perduta. Per questo il primo libro dei Maccabei descrive così l’effetto della sua titanica apparizione: et siluit terra in conspectu eius, «e la terra ammutolì al suo cospetto».

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Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re

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Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi

Giorgio Ieranò, “La Stampa  – TuttoLibri”, 9 febbraio 2019

Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita. Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere. Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra). Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota. Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».

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Ma questo Romolo sembra il re dei vichinghi

Maurizio Bettini, “Repubblica”, 4 febbraio 2019

Ho visto Il primo re, il film che Matteo Rovere ha dedicato a Romolo e Remo. E ho pensato al mito.
Cioè a quel tipo di storia che non viene raccontata una volta per sempre, ma muta e si rinnova da una versione all’altra. Però, a ogni variante il mito viene rielaborato secondo le categorie e i gusti della cultura che lo accoglie: la Medea di Euripide non è certo quella di Pasolini. Che ne è dunque dei gemelli nell’ultima versione del loro mito? A quali categorie si conformano? Prima di tutto, direi, alla fascinazione nordica cui la nostra cultura va soggetta quando immagina il primitivo.
Nelle loro peregrinazioni Romolo e Remo attraversano un Lazio irlandese, o finnico, dove non smette mai di piovere e dove una palude segue l’altra.
Si aggiungano gli scoppi di urla selvagge, le maschere d’orso (quelle che indossavano i famigerati berserkr del settentrione), l’ambientazione boschiva, le interminabili lotte nel fango. Primitivo uguale nordico, è lo spirito dei tempi.
Mi veniva in mente la teoria (talora accreditata anche in tv) secondo cui l’Odissea sarebbe stata originariamente ambientata nel Baltico. Anche il personaggio della Vestale — col suo volto fuligginoso, il suo gusto per il sangue di cui si cosparge — somiglia più a una strega del Macbeth che non a una “vergine pura” di romana memoria. Anzi, assomiglia a una profetessa vichinga, così come i proto-Romani di Rovere rassomigliano agli ispidi e selvaggi guerrieri della serie televisiva Vikings. Al di là dei corpi mutilati e smembrati, della violenza parossistica cara a Hollywood, il film ha anche molti meriti, specificamente cinematografici, lo si è detto, ed è fuor di dubbio originale. Basta pensare che i dialoghi non solo sono in latino, ma qualche linguista li ha perfino dotati di desinenze arcaiche e forme indoeuropee. A dispetto di tanta cura erudita per il Lazio delle origini, però, di autentici costumi romani in questo Romolo e Remo non c’è traccia.
Come quando il compianto funebre per i guerrieri morti viene accompagnato da una danza quasi Sioux e da un flebile coro di bambini. Cosa si sarebbe potuto fare con la lamentazione antica! Bastava aver letto Ernesto de Martino.
Se per rendere “altri” Romolo e Remo, come meritatamente voleva, un regista come Rovere avesse attinto non alle fantasie nordiche, ma alla vera “alterità” della cultura romana arcaica (e giuro che ce n’è a bizzeffe) l’effetto sarebbe stato straordinario. La cosa che più mi ha colpito, comunque, è un’altra: alla fin fine questa Roma di Rovere nasce cattiva.
Non è la Roma dell’asylum, aperta ad accogliere ogni disperato, come recita il mito romano, ma è una Roma ostile, chiusa. Altro segno dei tempi?

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Il popolo della seta

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La Cina attore globale al tempo dei romani
La storica Emilia Michelazzi racconta in un libro il boom della potenza commerciale cinese dopo l’incontro con Roma

Giorgio Ieranò, “La Stampa”, 1 febbraio 2019

La Cina è vicina. Anzi, era vicina già duemila anni fa. Quando, al tempo dei greci e dei romani, uomini e cose viaggiavano dal Mar Giallo al Mar Mediterraneo lungo la Via della Seta. Il nome Via della Seta è recente: fu inventato nel 1877 da Ferdinand von Richthofen, geografo avventuroso e profondo conoscitore della Cina, nonché zio di Manfred (il celebre Barone Rosso, asso dell’aviazione della prima guerra mondiale). Le antiche vie commerciali, in realtà, erano più di una: una serie di percorsi carovanieri che attraversavano l’Asia centrale, ai quali si aggiungeva una rotta marina che doppiava l’isola di Ceylon, la favolosa Taprobane degli antichi.
Secondo i testi cinesi, ad aprire la strada dell’Ovest sarebbe stato. nel 138 a. C., Zhang Qian, un funzionario di corte della dinastia Han. Ma già da tempo, sull’onda delle conquiste di Alessandro, i greci si erano spinti nel cuore profondo dell’Asia. L’Alessandria più remota (chiamata appunto Eschate, «L’estrema»), fondata nel 329 a. C. sul sito dell’odierna Xuçand in Tagikistan, è molto più vicina a Pechino che a Roma. E quando Zhang Qian, il pioniere della Via della Seta, varca i confini dell’impero cinese, nella Battriana, oggi Afghanistan del Nord, regnava il greco Menandro, trasformato poi dalla tradizione in un saggio buddista. Zhang Qian era un Marco Polo alla rovescia: il suo viaggio, di cui abbiamo un dettagliato resoconto, durò tredici anni, tra assalti di predoni e attraversamenti del deserto. Dalla Cina erano partiti in novantanove, ma Zhang Qian e il suo servo furono gli unici a tornare. C’è comunque motivo di sospettare che i rapporti dei greci con la Cina fossero ancora più antichi della spedizione di Zhang Qian. Qualche studioso sostiene che persino i guerrieri del celebre esercito di terracotta (210 a. C.) si ispirino alla scultura greca.
E’ però con l’impero romano che i rapporti tra la Cina e le civiltà del Mediterraneo diventano più intensi. A Roma fioriscono le narrazioni sul favoloso «popolo della seta», i Seres, che abitano ai confini del mondo. Come racconta ora un interessante libro di Emilia Michelazzi, intitolato appunto Roma e il misterioso popolo della seta (Edizioni Patron, pp.123). La prima volta che i romani avevano visto la seta cinese era stata forse nel I secolo a. C.: sventolava negli stendardi da battaglia dei guerrieri partici, i loro più formidabili nemici sulla frontiera orientale. Ma preso la seta orientale si diffonde anche nell’Urbe, diventando il simbolo per eccellenza dello sfarzo e della lussuria: non a caso, come ricorda Michelazzi, si sottolineava che il dissoluto Eliogabalo era sempre vestito di seta pura, mentre l’austero Aureliano la rifiutava. La bachicoltura era ignota nel Mediterraneo. Per cui i romani avevano idee vaghe, e in genere sbagliate, su come si produceva la seta. Ma erano pieni di ammirazione per quegli strani uomini capaci di creare una fibra così preziosa. Nelle fonti romane, i Seres sono dipinti come un popolo mite, onesto e giusto. In Cina, si narra, non esistono ladri, assassini o prostitute. Questo mito dei cinesi pacifici e saggi resisterà fino a Marco Polo, che li descriverà non solo come abili «mercatanti» ma anche come «naturali e savi fisolafi [filosofi]».
Molto prima di Marco Polo, all’inizio dell’era cristiana, in Cina era arrivato già Maes Titianos, un viaggiatore di cui ci parla il geografo Tolomeo. L’emissario di Roma aveva raggiunto la «Sera Metropolis», la Città della Seta, che doveva essere Chang’an, capitale dell’impero Han. I contatti diretti si fanno sempre più fitti. Nell’autunno del 166 d. C., gli annali di corte cinesi registrano la visita degli ambasciatori di un impero remoto, chiamato Da Qin, dove regna un potente sovrano di nome An Tun (forse Marco Aurelio, che portava anche il titolo di Antonino). Ma i primi ambasciatori di Roma in Cina furono forse, loro malgrado, i superstiti delle legioni di Crasso, sconfitte nel 53 a. C. dai Parti nella battaglia di Carre, sul fiume Eufrate.
Secondo Plinio il Vecchio, i legionari prigionieri furono deportati in Margiana, odierno Turkmenistan orientale. Alcuni anni più tardi, nel 36 a. C., assediando la città di Zhizhi (oggi in Kazakistan), il generale cinese Chen Tang si trova di fronte a formidabili nemici che combattono in una schiera compatta: «Un centinaio di fanti si schierarono in una formazione a scaglia di pesce e iniziarono a manovrare», si legge nei resoconti cinesi. Erano i legionari di Crasso, organizzati a testuggine, secondo la tattica romana? Così sostengono alcuni studiosi ma è difficile dirlo con certezza. Comunque, a chi oggi viaggia nella contea dello Yongchang, può capitare di imbattersi in cinesi vestiti da legionari: sono gli abitanti del luogo che, ogni tanto, sfilano in parata per rendere omaggio ai loro antenati romani.

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Ragazzi, imparate l’amore (e il sesso) da Catullo

Maurizio Bettini, “La Repubblica”, 12 gennaio 2019

Il recente boom del latino, la festa per la Notte dei licei classici, una nuova edizione delle sue opere che arriva in libreria: ecco perché riscoprire il poeta adorato da Yeats e da una schiera di fan che va dai filologi ai pornografi
Teste calve, ignare ormai dei propri peccati!» scriveva William Butler Yeats, il grande poeta irlandese. Ce l’aveva con gli studiosi di Catullo. Com’è possibile, lamentava, che versi scritti «nei loro letti» da giovani amanti, diventino materia inerte sotto il microscopio dei professori? Povero Yeats. Non poteva immaginare che in un futuro non lontano a Catullo sarebbe toccata una sorte ben più paradossale. Allontanate le teste calve, infatti, sulle sue poesie si sono chinate quelle di voyeur, fantasisti (chiamiamoli così), perfino pornografi. E dunque, che ne è stato del canzoniere d’amore e d’invettiva più celebre della poesia latina? Vediamo.
Ci si poteva aspettare che il «passero», quello che muore all’inizio della raccolta, fosse alternativamente interpretato come il sesso di Lesbia o quello di Catullo. Più scioccanti risultano però le elucubrazioni suscitate dall’«unguento» che le Veneri in persona avevano donato a Lesbia (omettiamo per decenza i dettagli corporei). Ed ecco Lesbia, il grande amore e l’ancor più grande dolore di Catullo. Il lettore si rassicuri: in realtà non è mai esistita. Si tratterebbe solo di una maschera, a cui il poeta avrebbe attribuito un carattere “saffico” (non a caso è descritta come sessualmente attiva) e un nome che evoca pratiche erotiche libertine: la «donna di Lesbo».
Interrompiamo la goffa rassegna, che in verità sarebbe assai più lunga. Basterà dire che si accoglie quasi con sollievo l’idea che l’immagine catulliana del «fiore virginale» sia stata ispirata dalla lettura del Cantico dei Cantici. Criticamente una stupidaggine, certo, ma che almeno non sa di lupanare. E dunque, che cosa è successo al povero Catullo dai tempi di Yeats?
Ha subìto la stessa sorte di altri testi poetici antichi. Dai quali ormai c’è ben poco da spremere — i millenni di studi li hanno resi esangui — ragion per cui bisogna inventare. E siccome siamo nell’era dello scoop, soprattutto erotico, tanto vale spararle grosse. Per nostra fortuna l’Italia sembra restare immune da simili bizzarrie. Ma soprattutto, sempre nel nostro Paese, Catullo ha appena ricevuto in dono un’opera che ampiamente lo risarcisce dei torti ricevuti.
Stiamo parlando di Gaio Valerio Catullo, Le poesie, a cura di Alessandro Fo, da poco edito da Einaudi. Il fatto è che — a dispetto delle “attualizzazioni” di pornografi e fantasisti — il libro di Catullo è un testo che dista da noi oltre due millenni: come tale non solo è irto di trappole dovute a una lunga trasmissione manoscritta, ma è reso spesso ambiguo dal forte scarto che ci separa dalla cultura romana. Per redigere un commento che renda conto di simili difficoltà, dunque, occorre essere prima di tutto filologi consumati. Non va neppure dimenticato, però, che Catullo è un poeta straordinario. Non ha scritto soltanto versi da letto, come voleva Yeats, ma versi di delicata amicizia, di invettiva giocosa o arrabbiata, versi mitologici degni dell’alessandrinismo più elegante, versi decisamente (e volutamente) enigmatici: e versi in cui l’amore-passione ha trovato una delle voci più schiette e indiscutibili che l’abbiano mai cantato, tra la gioia e la disperazione. Catullo infatti Lesbia l’ha amata davvero. Questo significa che per tradurre le sue poesie bisogna essere non solo latinisti ma, contemporaneamente, poeti. In un caso come questo la lingua d’arrivo, come la chiamano i traduttologi, non può essere solo piana e corretta, ma deve sorgere dal bagaglio di chi conosce a fondo le voci della poesia italiana — e soprattutto si richiede il possesso, in proprio, di un talento poetico. E Alessandro Fo lo possiede. Chi dunque vorrà o dovrà misurarsi col latino di Catullo, d’ora in avanti disporrà di un commento che lo guiderà nel cammino difficile, a volte, dell’interpretazione; chi invece desidererà solo leggere le poesie, in italiano, potrà farlo in una lingua ricca, sfumata, agile, a volte perfino geniale nel gioco delle corrispondenze con il latino. Per non parlare dell’astuzia con cui Fo, nei propri versi, riproduce i ritmi della metrica originale (faleci, esametri, scazonti …) in una forma “barbara” da lui già sperimentata nell’ormai classica traduzione dell’Eneide. Anche se un conto è farlo con l’esametro, un altro è riuscirci con i galliambi saltellanti in cui Attis, seguace di Cibele, racconta la drammatica vicenda della sua evirazione. Insomma, sui classici si lavora da duemila anni, lo abbiamo detto, ostinarsi a darne nuove e sorprendenti interpretazioni può condurre al ridicolo. E se invece, anche approfittando di questo libro, i classici provassimo finalmente a leggerli? Per esempio, incominciate da questi versi.
«Su viviamo, noi due, mia Lesbia, e amiamo / e i mugugni dei vecchi troppo arcigni / tutti insieme stimiamoli uno spicciolo. / Solo i soli si spengono e ritornano» (carme 5).
«Lui mi sembra essere pari a un dio, / superar gli dèi (se non è profano), / lui che, a te davanti, incessantemente / ti guarda e ascolta» (carme 51).
«Catullo, be’, che mora mai al morire, ormai? / Sta sul seggio curúle Nonio il pustola, / Vatinio si sta spergiurando console: / Catullo, be’, che mora mai al morire, ormai?» (carme 52).
«Odio e amo. Com’è che ci riesca forse ti chiedi. / Lo ignoro. Ma sento che riesce, e ci sto crocifisso» (carme 85).
«Per molte genti e per molte distese vaste portato / eccomi a questi, fratello, funebri riti infelici, / per farti dono di un ultimo, estremo omaggio di morte / e per rivolgermi invano alla tua cenere muta» (carme 101).
«Minchia di montare si sforza il monte Pipleio: / a forconate lo piombano le Muse, a testa all’ingiù» (carme 105).

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Insondabile alchimia dell’amore

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Carlo Carena, “Il Sole 24 ore – Domenica”, 23 dicembre 2018

Catullo. Un poeta geniale, snob, tenero, fragile e sboccato, allo stesso tempo erudito e istintivo. Nei suoi carmi,tra sesso, potere e vita quotidiana, si ritrovano prospettive modernissime, centrali per l’esperienza di ognuno

La Nuova Universale Einaudi pubblica un’edizione eccezionale di un classico latino: il Libretto dei versi di Catullo, curato da Alessandro Fo. I cento carmi del «ragazzaccio veronese, geniale, snob, tenerissimo, fragile e sboccato, istintivo e insieme erudito e sorvegliatissimo nello stile, irritabile, pettegolo…» secondo le classificazioni in cui lo inquadra Luca Canali nella sua edizione (1997), trova qui un assetto degno di quello che ancora Canali additava come «l’insostituibile crocevia» della poesia lirica latina di tutto il secolo seguente, il secolo d’oro.
Nell’Introduzione, di 163 pagine, Fo affronta e imposta con polso fermo e individualità di vedute, nel quadro di una tradizione esegetica molto ricca e autorevole, ogni problema che l’opera catulliana pone agli studiosi e ai lettori. Professore di Letteratura latina all’Università di Siena, egli ha dalla sua, come Canali, anche il retroterra di una personalità di traduttore e di poeta in proprio. Nella stessa Universale uscì infatti nel 2012 una sua versione dell’Eneide, che già affrontava e risolveva in modo originale problemi di metrica; e nella Collana di Poesia un paio di libri, Corpuscolo, del 2004 e Mancanze, del 2016.
E qui l’Introduzione si apre prospettando e dividendo metricamente e concettualmente i carmi catulliani, un primo gruppo in metri vari, e poi in distici elegiaci; dapprima composizioni brevi e leggere, le nugae, scherzi, poi di maggior estensione e impegno e su temi ispirati alla vita quotidiana, soprattutto le amicizie e le inimicizie e il sommo e struggente, fortissimo e delicato, perenne: l’amore. Anche il basso si affianca alla sublimità di questi temi sconvolgenti, ma la sostanza di ogni componimento della musa catulliana «è centrale per l’esperienza della vita di ognuno». Sempre molto letto e persino popolare, oggi si ritrova in lui ciò per cui Fo usa persino una terminologia modernissima, tanto questo Libellus è innovativo: e cioè sesso, potere, dinamiche sociali; leggibile persino in chiave psicanalitica e pornografica, maschilista o femminista.
Certo si potrebbe anche obiettare che mancano nel panorama catulliano talune prospettive che rendono un poeta davvero universale e indispensabile. Ma è anche vero che ciò che gli ispira la tragedia dell’abbandono e del tradimento di una donna, della perdita di quell’ideale e dell’irrompere su di esso della realtà del mondo, gli ispira accenti imperituri nel cuore e nella mente di qualsiasi lettore. Per lei, Lesbia, egli si era inebriato perdutamente (carme 5, trad. Fo): «Su viviamo, noi due, mia Lesbia, e amiamo… | Mille baci tu dammi, e quindi cento, | poi altri mille, e poi un’altra volta cento, | quindi fino a altri mille, quindi cento. | E poi, molte migliaia…»; ora la vede e la rappresenta disperatamente ad un amico: «Celio, la nostra Lesbia, Lesbia, quella, | quella Lesbia, lei che Catullo sola | più di sé ha amato, … | ora in vicoli e nei crocicchi» rende i servizi più immondi ai Romani (carme 58).
Osserva Fo che il modo come il poeta ha vissuto questo dramma è del tutto straordinario ed eccezionale, per l’importanza che vi assume l’aspetto “non fisico” dell’esperienza amorosa e l’originalità dei sentimenti delicatissimi che egli vi introduce: «Ti ho avuto a cuore, a quel tempo, non come il volgo un’amica | ma come ha a cuore i suoi figli, ed anche i generi, un padre» (carme 72).
L’originalità e la pregnanza del sentimento amoroso nel nostro poeta ne fa il fondatore anche del linguaggio della poesia e del linguaggio amoroso occidentale. I diminutivi, che ci fanno sorridere in lui e in noi, ne sono una nota caratteristica: così puellula, brachiolum, ore floridulo, ocelli, pallidulus, languidulus somnus… E ancora, i suoni e le onomatopee e gli «intrecci acustici di parole» e le sinfonie verbali. Così, nell’epicedio per la morte del passero della sua fanciulla (carme 3) troviamo: Passer mortuus est meae puellae, | passer deliciae meae puellae| quem plus illa oculis suis amabat. | Nam mellitus erat suamque norat | ipsam tam bene quam puella matrem | … O miselle passer! | Tua nunc opera meae puellae | flendo turgiduli rubent ocelli («Morto è il passero della mia ragazza, | gioia, il passero, della mia ragazza, | che lei più dei suoi occhi stessi amava. | Tutto miele era infatti, e distingueva | la sua lei come bimba con la mamma,| né dal grembo di lei mai si muoveva. | … O tu, poverello passero! | Per quest’opera tua la mia ragazza | piange e rossi ha gli occhietti, e gonfi gonfi».
Il latino catulliano e l’italiano del traduttore trovano nelle monumentali note successive (pagine 392-1221) descrizioni e risposte ad ogni quesito. E si ha l’impressione che, oltre alla fatica immane, Fo a volte vi si sia divertito all’arguzia, e certo diverte i suoi lettori.
Carme 27: «Tu al vecchiotto Falerno addetto giovane, | versa a me coppe belle amare, legge | di Postumia – regina del convito –,| più di un acino tutto ebbro ebbra. | Ma voi dove vi va sparite, o linfe, | via, rovina del vino, voi, e migrate | dagli austeri: qui è re il Tioniano puro». Nelle sei pagine di note l’annotatore ci informa anzitutto che il carme è stato sottoposto da parte dei commentatori a molte elucubrazioni e sottigliezze, mentre la sua impressione è che siamo di fronte a una semplice, spontanea accensione occasionale, mirabile nella sua autenticità; con ogni probabilità, un’improvvisazione a simposio. Si è stabilito che si beva vino puro: e ben venga. […] «Da trentatré parole in versi su una serata a bere fra amici, cosa pretendere di più?».
Viceversa al disperato carme 75 leggiamo: «Mi è giunta a tanto – per tua, mia Lesbia, colpa – la mente, | e a tale punto s’è persa per questa sua dedizione, | che ormai non può, pur se ti fai perfetta, volerti più bene, | né fare a meno di amarti». Fo lo inquadra e lo eleva così: «In questo epigramma l’accento finisce per cadere ai margini della follia in cui sbocca un simile smarrimento. Trattandosi di un’esperienza comune, non stupisce riscontrare un motivo analogo anche nella precedente tradizione [della poesia] erotica. […] Difficilmente, tuttavia, le variazioni di Catullo dipendono qui dai libri, e sembra impossibile negare che scaturiscano dal vivo di una sofferenza profondamente sperimentata».
Davanti a questi casi, così presentati, anche l’obiezione accennata più sopra delle deficienze e le scorie che restringono o impoveriscono la poesia catulliana, cade, e si riflette o si geme e inveisce con lui come sui grandi.

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