Patroclo curava Achille senza medicine

Umberto Curi, “Corriere della Sera – La Lettura”,  15 febbraio 2015

La massima de minimis non curat praetor significa che colui che è investito di un ruolo di particolare rilievo (ad esempio il praetor ) non si «preoccupa» delle bagattelle. La «cura» compare qui nella sua accezione originaria: non un complesso di pratiche rivolte a qualcuno che ne abbia bisogno, ma una disposizione soggettiva, uno stato d’animo, una condizione affettiva. 
«Curare» nel senso latino indica lo «stare in pensiero» per qualcuno o per qualcosa, mentre il «curare» nel senso moderno implica un «trattamento», per lo più comprensivo anche della somministrazione di farmaci. Nel linguaggio corrente non è rimasta alcuna traccia di tale dualità. Dalla «cura» è scomparsa ogni connotazione «soggettiva», per il sopravvento di interventi che assumono come «oggetto» il «paziente», così chiamato proprio perché a lui è attribuito un ruolo «passivo» di chi debba subire gli atti in cui è incorporata la cura. Una netta differenza è riconosciuta invece da Martin Heidegger, quando distingue fra «prendersi cura» e «aver cura»: nel primo caso si ha a che fare con le cose di cui ci occupiamo nella maniera dell’utilizzabile, mentre nel secondo caso siamo di fronte all’azione diretta ad altri esseri. 
I diversi quadri concettuali che sono a monte del concetto di cura sono esplorati con raffinata sensibilità teoretica e notevole acume da Luigina Mortari, nel suo Filosofia della cura, appena uscito da Raffaello Cortina Editore. L’orizzonte assunto come riferimento non riguarda esclusivamente gli aspetti specificamente «terapeutici» della cura, ma investe piuttosto direttamente i nodi più propriamente speculativi di questa problematica. Non solo, dunque, la cura rivolta agli altri, ma anche la cura di sé (alla quale nella Grecia classica era riservata una particolare attenzione, come ha sottolineato tra gli altri Michel Foucault) e la cura del mondo, con l’obbiettivo dichiarato di comporre una teoria descrittiva della cura che possa «costituire lo sfondo per disegnare una valida politica dell’esperienza». 
Luigina Mortari troverebbe conferma della sua ricca e originale perlustrazione nel termine greco abitualmente considerato il corrispettivo del latino cura . Già in Omero, e poi negli autori arcaici, therapéia vuol dire essenzialmente «servizio». Non, dunque, un «trattamento», comunque definito, ma un atteggiamento, un modo di essere nei confronti degli altri. 
Importante è anche almeno accennare alle modalità concrete, con le quali si esprime la therapéia. Essa implica, infatti, il «mettersi all’ascolto» dell’altro ovvero, per usare il corrispettivo latino, l’ obaudire l’altro, e cioè essere a sua disposizione (Patroclo, ad esempio, è il therápon di Achille, anche se non gli somministra alcuna medicina, ma gli «obbedisce»). Cosa sia accaduto, nel percorso non rettilineo che ha condotto la cura-therapéia a mutare così radicalmente il suo significato, è questione sulla quale converrà ritornare, in ciò stimolati dal bel libro di Mortari. 

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