Seneca, la conquista della felicità

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Armando Massarenti, “Il Sole 24 ore – Domenica”,  25 giugno 2017

«Quando la Pirelli cominciò a farmi girare per il mondo, non ci misi molto a rendermi conto che l’ubriacatura consumistica della business community e il materialismo reaganiano degli anni Ottanta ricordavano proprio quella società augustea a neroniana che Orazio e Seneca prendevano di mira. Da vizio privato, il tradurre si trasformò per me in pubblica virtù». Così commenta Gavino Manca il suo “pubblico servizio” di manager e al contempo anche di traduttore di testi classici latini: nel leggere la sua versione del dialogo La vita felice (De vita beata) di Lucio Anneo Seneca (da poco riproposta da Einaudi), ci accorgiamo che anche lui, come Seneca – pedagogo e consigliere personale dell’imperatore Nerone -, è un uomo “al vertice” che trova solo nella filosofia quel riparo sicuro dai marosi che l’esistenza non risparmia a nessuno, ma che infligge abbondantemente a chi vive a contatto con qualsiasi forma di potere. Non ci stupisce sapere dunque, come sottolinea Carlo Carena nella sua brillante introduzione, che questo trattato filosofico fu suggerito nel 1645 da Cartesio alla principessa Elisabetta di Boemia quale utile lettura, forse, per sopportare con maggior forza morale i disagi del suo status aristocratico. «Tutti gli uomini vogliono essere felici, ma nessuno riesce a vedere bene cosa occorra per rendere la vita felice». Il tema del dialogo dedicato al fratello Gallione è la difficile ricerca della felicità, da intendersi non certo in senso moderno, ma quale eudaimonia, cioè quel benessere psicofisico o equilibrio interiore che è assolutamente necessario per non cadere in mezzo ai rivolgimenti continui della sorte: la filosofia stoica – incentrata sul principio dell’autarchia – vi è presentata come un “esercizio spirituale” quotidiano, rivolto soprattutto alla sfera pratica del vivere. Le circostanze che spinsero Seneca a comporre questo testo, a ben guardare, furono tempestose: il filosofo, allora ancora precettore di un promettente giovane Nerone, si trovò a dover difendersi dalle accuse di un tal Publio Suillio Rufo, che criticava nel filosofo stoico una vita vissuta nei lussi e nelle ricchezze, assai lontana, nella sua essenza, dalla rigidità dei precetti della dottrina stoica. Per questo, nella lettura, rintracciamo talvolta una certa acrimonia che non è consueta del tono di Seneca: per esempio quando leggiamo le accuse rivolte ai filosofi epicurei, dediti più al piacere del corpo che non a quello dello spirito, ormai lontani dal modello virtuoso del loro frugale predecessore Epicuro. Ma la forza argomentativa maggiore consiste nel dimostrare come la ricchezza materiale non debba affatto considerarsi un male per la virtù: al contrario, le ricchezze, quando guadagnate onestamente, diventano un’opportunità in più per il sapiente che può dedicarsi liberamente all’otium filosofico senza l’oppressione dei gravami della penuria economica e, soprattutto, i beni in quantità divengono per la sua virtù un banco di prova, quando il saggio ricco dimostra al mondo di essere capace di resistere alle passioni e ai desideri che spesso accompagnano la ricchezza. Ma, autodifesa a parte, il vero senso di questo prezioso saggio di filosofia morale – da accostare alle Lettere a Lucilio, proposte quest’anno all’esame di maturità – lo troviamo nella definizione della virtù come pratica intellettuale, un sapiente uso della ragione per affrontare di volta in volta le asperità concrete del vivere. Il valore del discorso senecano consiste nel presentarci tale virtù come un lunghissimo cammino lungo il quale tante volte si cade, ma si diviene tanto più saggi quanto più si è capaci di rialzarsi. È questa, infatti, la nota fondamentale: Seneca non sale in cattedra, non si presenta come un saggio, ma come un uomo qualunque alle prese con la conquista lenta e continua della saggezza. Quest’ultima potrebbe non essere mai raggiunta, ma il fatto stesso di avere tentato di realizzarla, ci ha reso la vita meno invivibile, ci ha reso un po’ meno nemici di noi stessi. In questa ricerca consiste la virtù, in questa condizione interiore di ricerca filosofica pratica consiste la felicità, che è un equilibrio che va riassestato momento dopo momento e non si dà una volta per tutte. «I filosofi – scrive Seneca – non mettono in pratica sempre quello che predicano. Fanno già molto, proprio perché predicano e perché nutrono pensieri elevati: se agissero anche come parlano, chi sarebbe più felice di loro? Intanto non c’è ragione per disprezzare le parole virtuose e gli animi ricchi di buone intenzioni. La meditazione sulla saggezza è sempre lodevole, anche a prescindere dai risultati».

Epistulae ad Lucilium, XVI, 3-5

Non est philosophia populare artificium nec ostentationi paratum; non in verbis sed in rebus est. Nec in hoc adhibetur, ut cum aliqua oblectatione consumatur dies, ut dematur otio nausia: animum format et fabricat, vitam disponit, actiones regit, agenda et omittenda demostrant, sedet ad gubernaculum et per ancipitia fluctuantium derigit cursum.
Sine hac nemo intrepide potest vivere, nemo secure; innumerabilia accidunt singulis horis quae consilium exigant, quod ab hac petendum est. Dicet aliquis: “Quid mihi prodest philosophia, si fatum est? Quid prodest, si deus rector est? Quid prodest, si casus imperat? Nam et mutari certa non possunt et nihil praeparari potest adversus incerta, sed aut consilium meum occupavit deus decrevitque quid facerem, aut consilio meo nihil fortuna permittit”.
Quidquid est ex his, Lucili, vel si omnia haec sunt, philosophandum est; sive nos inexorabili lege fata constringunt, sive arbiter deus universi cuncta disposuit, sive casus res humanas sine ordine inpellit et iactat, philosophia nos tueri debet. Haec adhortabitur ut deo libenter pareamus, ut fortunae contumaciter; haec docebit ut deum sequaris, feras casum.

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